Il nostro posto nel mondo. “Una donna”, di Annie Ernaux

Leggo Annie Ernaux come di passaggio, come se si potesse trascorrere incolumi fra quelle righe che sembrano limitarsi a fotografare la realtà. Sua madre. Lo strappo che, il 7 aprile del 1986, la sua morte apre nell’autrice la spinge a riattraversarne la vicenda umana come in una successione di istantanee. Ma senza accorgertene il respiro ti si accorcia e senti un pizzicore spingere sotto le ciglia. Mentre la vedi, la madre generata dalle parole della figlia, quella donna tu la stai sentendo e non siete più due estranee. La scrittura è necessaria, perché sgorga come l’unica alternativa possibile. Ma ardua, perché con la morte della madre è crollato l’orizzonte in cui da sempre eravamo iscritte. Naturale e quindi dato per scontato. Automaticamente percepito, quindi immerso nell’afasia. La leggiamo nella traduzione di Lorenzo Flabbi:

Andrò avanti a scrivere su mia madre. È l’unica donna che abbia davvero contato per me ed era demente da due anni. Forse farei meglio ad aspettare che la sua malattia e la sua morte si fondano nel corso passato della mia vita, come gli altri eventi, la morte di mio padre e la separazione da mio marito, per disporre di quella distanza che facilita l’analisi dei ricordi. Ma in questo momento non sono capace di fare altro.

È un’impresa difficile. Per me mia madre è priva di storia. C’è sempre stata. (21)

E allora comincia dal principio. La nascita a Yvetot, una fredda cittadina del nord francese, tra Rouen e Le Havre, dove la madre, di cui mai viene pronunciato il nome, avrebbe trascorso tre quarti della sua esistenza. Un’infanzia famelica, trascorsa all’aria aperta a imparare le mansioni pratiche della campagna, insieme ai maschi: “tagliare la legna, bacchiare le mele, mozzare la testa alle galline con un colpo secco alla base del collo. L’unica differenza, non lasciarsi toccare i «quartieri bassi»”. La scuola, frequentata fino a dodici anni e mezzo, sempre affiancata dai lavori stagionali e dalle malattie di fratelli e sorelle. Bastano poche pagine per accorgerci che, come al solito, Annie Ernaux frugando nelle pieghe della sua vita più intima ritrova la Storia, col suo corpo ingombrante e materico. E così il determinismo dei codici gettati dalla tribù di provenienza, la violenza e l’orgoglio, sono quelli di un intero ceto che il Novecento scompiglierà e disperderà senza tuttavia cancellarlo:

Di un’allegria esuberante, ma ombrosi si infuriavano per un nonnulla e «non le mandavano a dire». Soprattutto l’orgoglio della loro forza lavoro. Ammettevano con difficoltà che si potesse essere più coraggiosi. Continuamente, ai limiti che avevano su ogni fronte, opponevano la certezza di essere «qualcuno». E da qui, forse, quella foga che li faceva gettare anima e corpo su tutto, il lavoro, il cibo, ridere fino alle lacrime per poi annunciare, un’ora dopo, «mi butto nella cisterna». Tra tutti, era mia madre a portarsi dentro più violenza e orgoglio, una rivoltosa lucidità sulla sua posizione sociale di subalterna e il rifiuto di essere giudicata solo in base a quella. Una delle sue riflessioni frequenti a proposito dei ricchi: «valiamo quanto loro». (30-31)

Un ceto che sopravviveva nell’incombenza minacciosa e costante della povertà, dei lutti ravvicinati, dell’alcol “a colmare il vuoto della rabbia”, ormai unico veicolo di un’allegria che non poteva più darsi, se non nell’artificio dell’induzione. E la madre interpreta il suo ruolo dentro un canovaccio già abbozzato – la necessità di trovarsi un marito, costruirsi un’attività redditizia e decorosa nella drogheria del paese, fare figli – ma lo fa nella sua peculiarità acuta e chiassosa, determinata a evolversi nonostante la rigida timidezza del marito. Donne sposate che sembrano nubili perché la loro vera vita avviene su un piano appartato, incarnato in quel parto solitario nella Francia occupata dai nazisti:

L’esodo: in marcia assieme ad alcuni vicini, sulle strade fino a Niort, dormiva nei fienili, beveva «un vinello di quelle parti», poi è tornata da sola in bicicletta, superando i posti di blocco tedeschi, per partorire in casa un mese dopo. Nessuna paura, e talmente sporca che mio padre non l’ha riconosciuta. (41)

E l’amore totale della figlia:

Una domenica fanno un picnic sul ciglio di una scarpata, vicino a un bosco. Il ricordo di essere in mezzo a loro, in un nido di voci e di carne, di continue risate. Sulla strada del ritorno veniamo sorpresi da un bombardamento, io sono sulla canna della bicicletta di mio padre e lei scende lungo il pendio davanti a noi, la schiena dritta sul sellino affondato tra le natiche. Ho paura delle granate e che lei muoia. Credo che fossimo entrambi innamorati di mia madre. (43-44)

Il ricordo dei lacci contraddittori di questa madre fisicamente ingombrante – la sua fame di vita la faceva buttare sul cibo – che indossa camicie sgargianti, la rimprovera, la abbraccia, le sfugge, perché è “una madre commerciante, il che significa che apparteneva in primo luogo a chi «ci dava di che vivere». La figlia la stima più del padre, che si rintana nel suo destino con garbata rassegnazione. La madre invece desidera imparare e persegue questo suo desiderio attraverso la figlia:

I libri erano gli unici oggetti che trattava con cautela. Prima di toccarli si lavava le mani. (53)

Nell’adolescenza, il conflitto. Inevitabile.

Nel mondo in cui era stata giovane, l’idea della libertà delle ragazze non era neanche contemplata, se non in termini di perdizione. […] Non le è piaciuto vedermi crescere. Nello scorgermi nuda sembrava che il mio corpo la disgustasse. Probabilmente, il seno, i fianchi rappresentavano una minaccia, quella che mi mettessi a correre dietro ai ragazzi e non mi interessassi più agli studi. Tentava di conservarmi bambina, dicendo che avevo tredici anni una settimana prima che ne compissi quattordici, facendomi indossare gonne a pieghe, calzettoni e scarpe basse. Fino a diciott’anni quasi tutti i nostri litigi hanno riguardato il divieto di uscire, la scelta degli abiti [..] «Non avrai MICA INTENZIONE di uscire così?» (57)

L’oscillazione fra la «buona» e la «cattiva» madre, a cui l’autrice tenta di sottrarsi rifugiandosi nell’opportunità di anodino che offre una scrittura neutra, paradossalmente efficace invece proprio nel toccarci in profondità, commuovendoci nella sua nudità senza orpelli.

Non ho detto a nessuno che sto scrivendo su mia madre. Ma non sto scrivendo su di lei, piuttosto ho l’impressione di vivere assieme a lei in un tempo, in luoghi, in cui è ancora viva. Talvolta, a casa, mi capita di imbattermi in oggetti che le sono appartenuti, l’altro ieri il suo ditale, quello che si infilava sul dito che una macchina, alla corderia, le aveva storto. Subito la consapevolezza della sua morte mi sopraffà, sono nel tempo vero in cui lei non sarà mai più. (64)

Il passaggio dalla casa materna al matrimonio, il salto di classe che la figlia compie grazie all’istruzione per cui la madre ha lottato. E la raggiunge un giorno nella sua «grande casa borghese», dopo la nascita del secondo nipote. In superficie si adatta perché è abituata a farlo, ma resta straniata e in quel nocciolo indomito che non si accomoda leggiamo l’assurdo di un universo che sta scivolando verso la disconnessione assoluta, stolido volo verso il baratro di una ricchezza vuota in cui i legami sociali sono recisi, liquidati come superflui impacci:

Tornando a casa l’ho scorta in giardino, intenta a sorvegliare il trasporto dei mobili e dei cartoni di cibi in scatola che le erano rimasti. I capelli le erano diventati tutti bianchi, rideva, traboccante di vitalità. […] I primi tempi è stata meno felice del previsto. la sua vita da commerciante era terminata da un giorno all’altro, la paura delle scadenze, la fatica, ma anche il viavai e le chiacchiere dei clienti, l’orgoglio di mantenersi «senza dipendere da nessuno». Ora era soltanto «nonna», in città non era conosciuta e aveva solo noi per parlare un po’. […] Si è ambientata, trovando modo di incanalare energie ed entusiasmo nel prendersi cura dei nipoti e nello sbrigare una parte dei lavoro domestici. Cercava di sollevarmi da tutte le incombenze pratiche, si rammaricava di dovermi lasciar cucinare e far la spesa, mettere i panni nella lavatrice, che aveva paura a usare: desiderosa di non condividere con nessuno l’unico ambito in cui si sentiva riconosciuta, in cui sapeva di essere utile. (71-73)

A metà anni Settanta ci ha seguiti nell’hinterland parigino, in una cittadina in costruzione in cui mio marito aveva ottenuto un incarico prestigioso. Abitavamo in una villetta di un nuovo complesso residenziale in mezzo a una pianura. I negozi e le scuole distavano un paio di chilometri. Gli abitanti si vedevano soltanto di sera. Nei fine settimana lavavano la macchina e montavano scaffali nei box. Era un luogo indefinito, senza sguardo, in cui ci si sentiva galleggiare, privati di sentimenti e di pensiero. Lei non ci si abituava. […] In capo a sei mesi ha deciso di tornare, ancora una volta, a Yvetot. Si è trasferita in un monolocale al piano terra di un residence per anziani, nei dintorni del centro (75-77)

Il monolocale è l’ultima abitazione dove la madre vive una vita dipendente, perché poi viene investita sulle strisce della Statale 15 da una macchina che passa col rosso  – ma reagisce, ancora una volta, e si riprende, seppur le sue consuetudini impercettibilmente si modifichino a sancire il suo ingresso nella vecchiaia: apparecchia sempre più presto, legge solo le notizie sui vip e i fotoromanzi, tiene il televisore acceso sin dal mattino e ci si addormenta, si innervosisce per banali minuterie quotidiane, le viene spesso il magone e sembra sul punto di piangere. E poi sintomatiche disavventure: l’attesa al binario di un treno già partito, uscire per andare a fare la spesa e trovare tutti i negozi chiusi, le chiavi che non si trovavano mai, l’arrivo per posta di merci mai ordinate, l’aggressività nei confronti dei parenti del paese accusati di interessarsi troppo ai suoi soldi. E poi lo svenimento nella torrida estate del 1983. Viene alimentata e reidratata nell’infermeria del residence, le viene consigliata una casa di riposo, ma la figlia rifiuta questa soluzione e la porta a vivere con sé.

Raccontava con allegria aneddoti sulle sue compagne di stanza, giusto uno strano commento a proposito di una di loro: «Quella stronza, le avrei rifilato due ceffoni». È l’ultima immagine felice che ho di mia madre.

Finisce qui la sua storia, quella in cui lei aveva un suo posto nel mondo. Perdeva la testa. Si chiama morbo di Alzheimer, nome dato dai medici a una forma di demenza senile. (83)

Il racconto continua:

Non si raccapezzava mai tra le varie stanze della casa e mi chiedeva spesso con rabbia come raggiungere camera sua. Perdeva le sue cose (questa frase che aveva preso a dire: «Ma che fine ha fatto mai»), avvilita nello scoprire che erano in posti in cui si rifiutava di credere d’essere stata lei a lasciarle. Chiedeva qualcosa da cucire, da stirare, della verdura da pulire, ma prestissimo ogni incarico la innervosiva. Ha iniziato a vivere in una perenna impazienza […] Ha smesso di capire ciò che leggeva. […] Ha dimenticato i nomi. Mi chiamava «signora» con un tono di cortesia mondana. I volti dei nipoti non le dicevano più nulla. (84-86)

E l’autrice descrive con lo stesso apparente distacco la metamorfosi che la malattia della madre provoca anche in lei: lo sfiorire rabbioso, il definitivo congedo da quello sguardo che ci distingue e ci ripara.

In quel periodo ho avuto due incidenti d’auto nei quali avevo torto. Facevo fatica a deglutire, avevo mal di stomaco. Per un nonnulla strillavo e mi veniva da piangere, mentre altre volte scoppiavo a ridere con violenza assieme ai miei figli, fingevamo di considerare le dimenticanze di mia madre come delle gag volontarie. parlavo di lei a persone che non la conoscevano. Mi guardavano in silenzio, avevo l’impressione di essere pazza anch’io. Un giorno ho guidato per ore lungo strade di campagna senza una meta precisa, sono tornata soltanto quando ormai era buio. Ho iniziato una relazione con un uomo che mi disgustava.

Non volevo che tornasse a essere una bambina piccola, non ne aveva il diritto. (86-87)

E ancora il succedersi delle stagioni: il mondo intorno che si fa indistinto agli occhi della madre, ma la figlia è lì e, mentre la cura con una tenerezza ormai assuefatta all’inversione degli antichi ruoli, osserva e registra. Le diventa nuovo organo di memoria.

Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo. (99)

Il caso giustappone a questa mia lettura la visione di Infinito. L’universo di Luigi Ghirri, girato da Matteo Parisini. La familiarità di quegli scorci, di quella luce, si strania in una commozione che dilava lo sguardo fino a reincantarlo.

(nella penultima foto, quella della donna con la bimba piccola, potrebbe trattarsi di Annie Ernaux con la madre, ma non ne sono certa. L’ho raccolta in questo sito, dove si racconta del documentario Mères filles, pour la vie di Paule Zajdermann, dove tra estratti di film e interviste a scrittrici, compare anche Annie Ernaux. Nell’ultima invece l’autrice è con sua madre, davanti alla loro drogheria di Yvetot).