Il corpo del delitto – Donne nel Cile del golpe di Pinochet (una recensione)

Andiamo verso i 50 anni dal golpe di Pinochet, il prossimo 11 settembre, ma non è per questo che sto tornando sul Cile. Questa coincidenza fra le mie attuali letture e la ricorrenza tuttavia non mi dispiace. Non mi ricordo come sono arrivata a Chi ha ucciso Lumi Videla? di Emilio Barbarani, segretario all’ambasciata italiana di Santiago dal febbraio del ’75 al settembre del ’76, all’epoca trentacinquenne. Ho sotto mano altri libri, alcuni della prima metà degli anni Settanta che ricostruiscono l’ultima fase del governo Allende e i primi anni della dittatura di Pinochet, oppure più recenti che tentano un’indagine socio-politica del caso Cile, laboratorio mondiale del neoliberismo nelle sgrinfie sgarbate dei Chicago boys allevati nei dettami di Milton Freeman. Barbarani però sceglie di impostare il suo testo come se fosse un romanzo, sfoggiando uno stile ricco, scorrevole, un certo gusto per le descrizioni degli scorci paesaggistici, degli interni, degli abiti, delle cene, dei vini (che non beve perché astemio ma comunque pregiati), degli effluvi promanati dalla potente natura cilena che s’insinua fin dentro la Residenza (l’ambasciata), i sapori dei biscotti e dei caffè fumanti serviti in tazze di porcellana. Tutto questo unito a quella che lui definisce come una giovanile inclinazione dongiovannesca, ossia una predilezione spiccata per giovani donne di svariata estrazione politica e sociale che l’autore ai tempi corteggiò e con cui intrattenne scambi erotico-amorosi, descritti talora con graffiante sensualità e talaltra – ahimè! – con imbarazzanti stereotipi. Si rileva tuttavia il peso determinante di una delle tre, Wanda, nella risoluzione – tardiva e segreta – di buona parte dell’enigma che dà il titolo all’opera, a riprova che queste donne non sono certo così “bambolizzate” come certe descrizioni dell’autore lascerebbero per un attimo sospettare, ma piuttosto imbambolano facendo talora commettere agli uomini errori madornali che comunque poi – nel patriarcato all’ennesima potenza rappresentato dalla dittatura cilena non potrebbe essere altrimenti – vengono pagati da loro in prima persona  (è il caso anche della stessa Lumi Videla capace di far perdere la testa al colonnello K, uno dei più spietati militari del regime, e per questo brutalmente seviziata e uccisa, e della stessa Wanda che, dopo una vita nel lusso e nei rischi del doppiogioco, finirà “con grande dignità” i suoi giorni a Londra come commessa da Harrod’s perché nauseata da quel mondo di potenti spietati in cui a lungo si è mossa con apparente disinvoltura). Permea la scrittura il sentimento di accesa umanità e dolente empatia che Barbarani sviluppa nei confronti dei perseguitati dalla dittatura, dei rotos, i più poveri e penalizzati che hanno simpatizzato per i partiti di sinistra intravedendo finalmente un’opportunità di riscatto e che rischiano ora la vita perché bollati come pericolosi oppositori del regime. Tutto questo rende la lettura coinvolgente e dà alla ricostruzione storica una pienezza rara, resa da un punto di vista per me inusuale – il diplomatico non è certo classificabile come uomo di sinistra e, forse proprio per questo, le sue narrazioni si ribaltano sul filo dell’oggettività restituendoci senza preconcetti ideologici la brutalità radicale di un regime spietato in un quadro che sentiamo diversamente vicino.  E ricollocato.

Lumi Videla

Lumi Videla è una studentessa di Sociologia e Filosofia di 26 anni, con un figlio, dirigente del MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria), quando viene uccisa e il suo cadavere viene lanciato oltre il muro di cinta dell’ambasciata italiana. Siamo nel dicembre del 1974. Prima – come poi si scoprirà – è stata torturata per un mese e mezzo e poi trucidata dalla DINA (la polizia di Pinochet), ma la Giunta e la stampa dell’epoca sostengono che la donna sia stata ammazzata dentro l’ambasciata italiana “durante un’orgia”, per motivi di gelosia. Questo scandalo, che si diffonde molto rapidamente a causa dei pregiudizi condivisi dai più sulla “disinibizione tipica” delle donne di sinistra, inceppa per qualche settimana il delicatissimo meccanismo degli aiuti che l’Italia, nazione che non ha riconosciuto la legittimità del governo di Pinochet, sta offrendo ai perseguitati politici cileni in termini di asilo politico nell’elegante ambasciata di Calle Miguel Claro 1359, trasformatasi in una vera e propria anticamera per espatriare in paesi amici, quali Cuba, la Svezia, la Romania e l’Italia stessa, dove queste persone potranno cominciare una nuova vita.

Sapevo delle persone scampate alle brutalità disumane della giunta militare perché buttatesi al di là del muro della nostra ambasciata, ma leggere il testo di Barbirani è stato come se fossi entrata per la prima volta nel vivo di quel luogo con il suo viavai continuo di rifugiati politici, delinquenti comuni e infiltrati, uomini, donne e bambini, un susseguirsi di insidie e colpi di scena, tanto che per oltre un anno Barbirani circolò nella Residenza armato addormentandosi la sera con una pistola carica sul comodino, sorvegliato fuori dalla stanza dai due fedelissimi di Humberto Sotomayor, dirigente del MIR, di cui viene tratteggiato un ritratto di medico colto, pronto all’azione, equilibrato e profondamente onesto, che si aggirava fra gli ospiti con la Bibbia e il Capitale fra le mani. Nella totale alleanza con l’ambasciatore Tomaso de Vergottini, illuminato dalla presenza solare e risoluta della di lui moglie Anna Sofia, in una situazione di pericolosa ambiguità formale (entrambi i diplomatici sono stati inviati a Santiago col compito di aiutare la sinistra cilena senza nessun titolo ufficiale accreditato dal governo italiano presso quello, golpista, cileno), il segretario Emilio Barbirani riesce nei diciotto mesi del suo servizio a mettere in salvo circa settecentocinquanta persone. Oltre alla fedele figura di Sotomayor, di cui Barbirani sentirà molto la mancanza nel momento in cui il capo del MIR riesce finalmente a rifugiarsi a Cuba, si staglia intatta quella del leader dei comunisti, il señor Chavez, “massiccio come una roccia, guardingo e taciturno” (33): entrambi fondamentali per mantenere una relativa serenità in ambasciata, dove abbondano complotti e piani di sequestro affatto teorici, particolarmente intensi nelle settimane di blocco delle partenze a causa delle accuse sul caso Lumi Videla. La vita in ambasciata viene restituita in una complessità che si popola di elementi eterogenei: oltre ai numerosi membri del MIR, dei partiti comunista e socialista e della sinistra democristiana, e a qualche criminale comune, ricordiamo l’impiegata della cancelleria in lacrime perché la notte precedente, durante il coprifuoco, degli agenti in borghese hanno fatto irruzione nella casa di suo cugino sequestrando lui e la moglie e abbandonando lì i due figli di tre e cinque anni, poi Manuel, esponente del MIR che chiede disperatamente di partire per non essere fatto fuori dentro l’ambasciata dove è stato minacciato di morte da alcuni socialisti, l’ufficiale della Policía de Investigaciones Jiménez misteriosamente rifugiatosi in Calle Miguel Claro e considerato dalle autorità cilene un transfuga traditore, la quindicenne Pílar, “magra magra, grembiulino di cotone come un prato in fiore” (175) che viene a ringraziare Barbirani per aver salvato i suoi genitori, la signora dei fiori di carta, “quarant’anni mal portati, lo sguardo perso dietro i suoi fantasmi, il passo incerto” (189) che, sola al mondo, si dedica alla ricerca del figlio diciassettenne desaparecido e, infine, il Negro, “un criminale comune, alto quasi due metri, capelli nerissimi, ricciuti, folti, due mani enormi e possenti come artigli, occhi spenti, evidenti turbe mentali” (146) che si invaghisce di una ragazza del quartiere che ogni giorno transita davanti alla Residenza e finisce per sollevarla con le sue braccione dentro le mura dell’ambasciata pensando di sposarla ma lei poi si mette con un giovane rifugiato e allora El Negro lo rincorre ovunque minacciando di accoltellarlo, per finire bloccato e disarmato da ben dieci persone che a stento ne contengono la furia. Un’umanità varia e toccante, inaspettatamente divertente anche.

Altri due personaggi sono fondamentali nella riuscita del progetto umanitario per gli asilati dell’ambasciata italiana che, come Barbirani sottolinea, non sono “soltanto militanti della sinistra cilena, ma anche i diseredati, i poveri, sempre sospettati di antimilitarismo e criptocomunismo” (80): il sofisticato Roberto Kozak, capo del CIME (Comitato Intergovernativo per le Migrazioni Europee) e il sacerdote gesuita Fernando Salas, che a un certo punto rischierà seriamente di essere fatto fuori dalla polizia della Giunta. Fra le righe di quello che pare un romanzo d’avventura con ambientazione esotica e venature erotico-sentimentali ma invece è un’autobiografia collettiva, lampeggiano livide le descrizioni degli orrori perpetrati quotidianamente dalla dittatura cilena, orchestrata dalle multinazionali e dai servizi segreti statunitensi preoccupati che un’altra roccaforte socialista sul suolo americano possa scatenare il temuto “effetto domino” e sovvertire i precari equilibri della guerra fredda: donne a cui viene inserito dentro la vagina un topo vivo, uomini denudati e assaliti da cani addestrati a mordere i testicoli, persone esposte a temperature sottozero fuori dalle baracche nei campi di concentramento dopo essere state irrorate d’acqua con gli idranti, persone sottoposte a scariche elettriche nei genitali o lentamente soffocate con la testa premuta in un secchio colmo d’acqua e feci, genitori costretti ad assistere alla violenza fisica sui figli o sulle figlie per convincerli a parlare, tecniche d’interrogatorio truci per portare a una rapida confessione, ma spesso alla follia oppure alla morte.

Una testimonianza inusuale e densissima.

Contenta di leggere che l’autore di questa preziosa restituzione sia oggi uno scrittore ottantatreenne che ha appena pubblicato il suo primo romanzo d’invenzione.