“Il bosco magico”, di Stefano Cammelli. Una recensione.

Se tutti hanno una musica e un’identità musicale perché l’Emilia e il Bolognese non ne hanno più una?

A partire da questo interrogativo si dipana l’indagine raccontata nel libro di Stefano Cammelli, la cui reiterata lettura mi ha accompagnata nell’ultimo mese innestandosi vivamente nei miei percorsi sulla voce, cantata e scritta. E non solo.
È il racconto della ricerca che l’autore intraprese fra il 1973 e il 1979 dalla città alla Bassa e poi sull’Appennino, durante la quale raccolse i brani che si possono ascoltare nei quattro dischi sulla musica popolare di Emilia e Romagna pubblicati nella collana Albatros dalla casa discografica Vedette. Il saggio evidenzia la volontà risoluta, in un contesto che stava andando in tutt’altra direzione e le cui istituzioni dimostrarono scarsissimo interesse per il ricco repertorio riportato alla luce, di testimoniare un mondo in via d’estinzione.
Si comincia con Bologna e quello che esce è un ritratto appassionato e originale, capace di registrare le incipienti mutazioni antropologiche che avviavano una metamorfosi oggi giunta alle estreme conseguenze. Oltre ai secoli in cui affonda la tradizione musicale fatta riaffiorare da Cammelli, molto interessanti sono a mio avviso anche gli indizi sul tempo della raccolta, quegli anni Settanta emiliani di cui in questo momento mi sta particolarmente a cuore ricostruire il clima storico: la Bologna delle osterie e dei suonatori, fra cui si staglia la figura schiva e carismatica di Francesco Guccini, dei cantastorie che portavano nelle piazze un sapore antico; la città che, col sindaco Zangheri e l’architetto Cervellati, si adoperava per custodire nel centro un tessuto vivace di attività e relazioni, dove l’incipiente esperienza del DAMS faceva dell’arte e della creatività una trave portante dell’identità cittadina, dove studenti e operai si muovevano in una morfologia urbana che ancora marcava in maniera netta le distinzioni sociali mentre sullo sfondo si udivano gli echi delle manifestazioni contro il golpe cileno.
Dopo la città, la ricerca si inoltra nella Bassa dove, nonostante il territorio fosse differenziato per il tipo d’insediamento e la distribuzione sociale, la tradizione musicale risultò piuttosto omogenea e già irrimediabilmente compromessa, con un repertorio per lo più costituito da canzoni politiche, a est molto influenzate dalla Romagna (Imola a fare da ponte) mentre, dall’altra parte dell’autostrada Bologna-Padova, andando verso il Modenese, l’elemento coagulante era l’esperienza in risaia: molte contadine raccontavano della partenza per il Piemonte, l’allegria delle spedizioni, l’incontro con donne provenienti da altre zone dell’Italia settentrionale. Le cante erano quindi tradizionalmente eseguite da decine di persone insieme, che però era ormai difficile riunire e registrare. Un suggerimento prezioso fu quello di rivolgersi ai dirigenti delle leghe bracciantili arrivato all’autore da Guerrino Nicoli che, sollecitato dalla presente ricerca, seppe tenere insieme un nutrito coro di cantori di San Giovanni in Persiceto, compresi fra la via per Crevalcore e le Budrie. I cori registrati furono comunque parecchi, fra Pieve di Cento e Montese (nell’Appennino Modenese) e tutti confluivano in un’unica tradizione musicale di canto polifonico con un “primo” di riconosciuta autorevolezza che, appena accennato il tema, magistralmente attendeva un potente coro di bassi che attaccava, preciso come un “botto”, una terza sotto la linea del canto. L’effetto era quello “di un fiume di pianura lento ma sicuro, capace di spostare un’immensa massa d’acqua quasi restando immobile” (68): una straordinaria esperienza umana in cui la voce singola si perdeva nel flusso collettivo abbandonandovisi nell’appagata pienezza dello “stile epico”, caratterizzato da un’esecuzione neutra, che non lascia trapelare emozioni. La documentazione di questo tipo di musiche si è dimostrata tuttavia lacunosa, mentre fino a quindici anni prima sarebbe stata enormemente più articolata; più integro il repertorio domestico di ninnenanne, filastrocche e richiami per gli animali, a conferma della fondamentale funzione di custodi della tradizione che le donne rivestivano nel mondo contadino.
Ma è solo col sesto capitolo che si entra nel cuore di quella che l’autore tratteggia come una vera e propria indagine poliziesca, determinata a individuare le cause della “grande sparizione” dell’identità musicale bolognese. Siamo finalmente nell’Appennino tosco-emiliano. In ambito musicale però quel trattino, piuttosto che unire, separa.
Grazie al fondamentale orientamento dell’etnomusicologo Roberto Leydi, tramite il quale il giovane ricercatore scoprì anche l’inestimabile patrimonio di canti raccolti in Italia da Alan Lomax con Diego Carpitella fra il ’54 e il ’55, grazie alla lettura dello studio su danze e musiche popolari svolto a Bologna dallo scrittore della Biblioteca dell’Archiginnasio Gaspare Ungarelli (1852-1938) e grazie soprattutto all’esperienza maturata sul campo, prima nel capoluogo poi nelle contrade di pianura, l’autore era pronto a questo punto per affrontare il nodo segreto del mondo appenninico. Qui rimarremo per tutto il resto del libro e pian piano verrà alla luce anche il significato del titolo: la natura di questa musica si disvela, infatti, a partire dal paesaggio e il bosco, coi suoi rituali sacri che rarefanno i confini fra esseri umani, animali, alberi e fonti, è la chiave per cominciare a intuirne il senso profondo. Ancora più del bosco, le radure, che aprono squarci di luce nel fitto della selva ombrosa – preziosa l’etimologia nella parola tedesca Lichtung, che ha dentro proprio la luce e che tanto piacque ad Heidegger. In questo rischiararsi repentino sta anche per me il momento della scintilla epifanica, quando ho sentito chiaramente che la lettura andava prendendo la forma di un progressivo svelamento. Osservando innanzitutto la toponomastica appenninica, salta agli occhi che numerosi sono i riferimenti a un variegato culto mariano che si integra in un universo fatto di sfuggenti pastori, lunedì di “festa grossa” in cui la sacra ricorrenza domenicale sembra dover sfogare le proprie indomabili eccedenze, di lupi ammaliati dai violini, musiche portate dalle foglie delle querce o dei faggi e di danze intensamente allusive a cui è restituito il fascino di un inconsapevole mistero. È in questa cornice che prendono forma le piste più suggestive, suggerite a mezza bocca dai rari testimoni che si azzardano a nominare certi balli che, dopo l’interpolazione cristiana, in tanti ritengono troppo sconci e che in Toscana vengono addirittura vietati in quanto ritenuti manifestazione diabolica o comunque fortemente disfunzionali. I pastori vengono descritti come irrimediabilmente contrapposti al mondo contadino: diffidenti, suddivisi in rigidi clan, fieri di non appartenere a un luogo preciso ma solo a sé stessi e al proprio gregge, refrattari a ogni autorità, contrabbandieri, renitenti alla leva, conoscitori eccellenti dei tratturi che venivano tramandati di padre in figlio, un po’ emiliani un po’ toscani – come risuonava nella loro parlata e in certe abitudini alimentari. Pastori ancora in attività negli anni della ricerca, l’autore tuttavia non ne incontrò. Pareva che con la guerra i confini delle proprietà fossero diventati più rigidi e non venisse più dato loro il permesso di spostarsi liberamente da una parte all’altra della valle, come invece serve al pascolo. Riuscì però a raccogliere “canti a dondina”, creati coi richiami che i pastori e le pastore si lanciavano l’un con l’altra per vincere la noia mentre vegliavano le greggi e che sono l’estensione più occidentale di una tecnica tipicamente adriatica, chiamata “canto a la boara” in Romagna, “canto a vatoccu” in Umbria e “canto a la foja” in Istria e Veneto. In questa sospensione fra due mondi che contraddistingue i pastori prende vita il magico-religioso, che predilige appunto le soglie. Questa marginalità l’autore la collega a quella di Maria, che in effetti sempre a loro è apparsa, ignorando l’universo contadino e dimostrando di preferire boschi, fonti e forre. Il suggestivo santuario di Montovolo, che prelude alla “veduta sacra” della valle del Reno che si spalanca dopo un centinaio di passi, potrebbe essere dedicato proprio alla dea della pastorizia Pale.
Ben presto è palese che la musica nei boschi non è mero passatempo, bensì il più antico rito dell’Appennino. La ricerca va assumendo allora connotati a tratti inquietanti: mulini ad acqua abbandonati dove si raccontava di mugnai avvistati a suonare il violino per poi entrare nel bosco accompagnati da riflessi rossi di brace, giovanissime donne impiccate alle querce, croci di fuoco a levarsi nell’aria.
Impercettibilmente lo strumento del violino diventa centrale nell’opera e va connotandosi come formidabile veicolo di magia mentre i suoi suonatori, spesso mugnai, vanno assumendo tratti sciamanici. Al violino si associa l’allodola col suo canto paradisiaco, irto di virtuosismi. E l’allodola è collegata alla dea delle selve, Artemide, la dea vergine che si cela al maschile, lo elude. Lo evita. Come alla società patriarcale si sottraevano quelle ragazze che sceglievano il bosco per mettere fine alla loro vita, perché restate incinte al di fuori di un matrimonio. Autodeterminazione almeno nella morte e nella cornice selvaggia di quel mondo sacro contrapposto a una civiltà che annienta le eccedenze e vorrebbe estirpare ogni dissonanza rispetto ai suoi rigidi canoni. Nel mistero divino di cui la natura si permea nelle selve queste donne sentivano probabilmente un’affinità che non trovavano in nessuna contrada del mondo cosiddetto civilizzato, avvertivano un’opportunità medicamentosa che prendeva voce dalle acque e dalle fronde dei boschi. Al giovane studioso giungevano frammenti dispersi che nessuno aveva mai riconnesso in un unico disegno condannando queste laconiche culture a un irrisolto enigma destinato a spegnersi. Riuscire pian piano a dischiudere se non il senso almeno la traccia di un mistero è l’enorme merito di questa indagine e di questa raccolta di musiche. E la scrittura stessa sembra articolarsi per salti e illuminazioni, per “chiari nel bosco” che è la perifrasi che la filosofa María Zambrano usa proprio per indicare le radure e che ci conducono dentro un “logos sommerso”, mai lineare né troppo evidente. I luoghi stessi sono descritti nella precisione dei dettagli ma con una perturbante densità evocativa, capace di appellarci nel profondo anche attraverso figure inattese ma decisive, come quella dell’anziana signora che racconta allo studioso delle danze notturne accompagnate dal suono di violini che si svolgevano sul monte e che lei poteva osservare dalla finestrella della sua cucina, affacciata sulla spianata: giovani donne ornate di bianchi veli a danzare intorno agli alberi. Su di loro pioveva la luce argentea del plenilunio che le avvolgeva in un’atmosfera surreale: “La vecchina conosceva molte storie di quel genere e raccontò per tutta la sera di bambini che vomitavano rospi neri dopo la benedizione di un prete, di fanciulle disperse nei boschi e trovate al mattino affogate nei pressi di una fonte, di luci che brillavano nella notte sui cimiteri a metà collina, seguendo le quali qualcuno si era perduto, o era impazzito.” (174)
Arcaici resti intatti, in donne come questa, di remoti orizzonti italici, risalenti all’epoca preromana. Interpretando con pazienza le sottili connessioni ormai sepolte, il ricercatore svela il recupero di antiche usanze come questa in certa musica colta e si accorge di come nell’Aria di Mantova di Matteo Coferati (cappellano del duomo di Firenze, organista e cantore, morto nel 1703) sia sopravvissuto quel Ballo del morto che ancora negli anni Settanta le ordinanze comunali dei paesini di montagna vietavano di eseguire direttamente sulle tombe in occasione della ricorrenza novembrina. Ed è di nuovo la toponomastica che suggerisce una chiave per risospingerci in una lontana epoca precristiana: il Monte Venere con di fronte il Monte Adone, il Monte Cerere e il Monte Sole, la cui terra è intrisa del sangue versato nel più grande eccidio nazifascista avvenuto in Italia. Ma non sono solo gli oronimi a raccontarci questa antica dimensione: anche i nomi dei paesi la confermano. E allora Monzuno è il Monte di Giunone (Mons Junonis) e Iano, luogo di “arcaico passaggio” che si spalanca sulla veduta sacra della valle del Reno come un dio bifronte, una doppia porta (janua) a osservare da un lato il punto di partenza (la città) e dall’altro il punto di arrivo (l’Appennino). Anche la divinità del Nettuno, strano simbolo di Bologna (come mai il dio del mare per una delle città più continentali della nazione?), si spiega ricollegandone l’etimo alla nebbia (nebula) o alle nuvole (nubes) così tipiche dei paesaggi montagnosi.
Dopo tante difficoltà, il punto di svolta nel percorso investigativo, da cui ogni tassello ha preso necessariamente il suo posto, con naturalezza. Anche i violinisti, custodi di questi segreti e forse per questo apparentemente dispersi fra le montagne fintanto che non si era compreso il giusto dispositivo per decifrarne la funzione, cominciano a farsi vivi: i suonatori dell’Acquacalda e poi quel Melchiade Benni destinato a diventare l’icona del violino popolare bolognese, dai tratti per certi versi simili alla prassi esecutiva barocca, e che fu proprio Stefano Cammelli a far tornare alla musica, già pensionato, dopo che per anni l’aveva abbandonata.
Un enorme contributo alla riscoperta del ricchissimo patrimonio musicale dell’Italia settentrionale era dunque stato dato con questa lunga indagine. Cadde purtroppo totalmente inascoltato dalle istituzioni locali che, all’epoca, preferivano tenere distante quel mondo che una tale ricerca contribuiva a riportare alla luce, avviando irrimediabilmente la società attuale sulla strada di un’allarmante omologazione.
Resta il perturbante sentimento che queste musiche sanno ancora almeno suggerire, una stranissima sensazione atavica che ci ricorda che l’umano ha dentro pieghe inquietanti e ignoti rivoli, ma soprattutto che tutte e tutti siamo parte di un cosmo luminoso e oscuro, capace di nutrirci ma anche di incuterci un formidabile terrore.