Cile 2023-1973

Acqua ero e all’acqua sono ritornata. Con la nostalgia di ciò che non fu. L’energia si è abbassata, per legge di natura, e col mare ho generato risonanza perché potessimo danzare, in affiatato flutto. Invece, come pietra sto. Schiacciata sul fondo dell’oceano.

Me vuelvo arena, ti dicevo nei giochi dell’amore. Me vuelvo arena, divento sabbia. Sabbia a ricevere le tue acque mentre le nostre gambe si intrecciavano e sentivo i tuoi capelli fini, nerissimi, spargersi sui miei seni. La tua lingua tiepida sui miei capezzoli pronti a sbocciare. Me vuelvo arena.

Quanti metri d’acqua sopra di me? Centinaia? O forse solo poche decine? Il suono viaggia più lento nelle acque fredde e profonde, più veloce in quelle calde e superficiali. Oltre i mille metri di profondità però il suono corre molto più rapidamente che in superficie, perché la pressione controbilancia l’abbassamento di temperatura.

Mi ero appena iscritta a Foniatria quando vennero a prendermi. Avevo diciott’anni.

Fu in una grigia mattina d’inverno, il 26 giugno 1974. C’eravamo trasferiti a Lampa, sulle prime montagne a nordest di Santiago, subito dopo l’arresto della mamma a fine maggio, perché papà aveva paura che in città ci trovassero.

Arrivarono su una camionetta rossa. Erano in due, vestiti con degli impermeabili bianchi. Chiesero di me alla padrona di casa; dissero che erano miei amici. Sentendo le loro voci, scesi lungo la scala esterna e uno di loro mi si fece incontro come per abbracciarmi. Lo schivai. Mi afferrò il braccio e mi trascinò dentro alla stanza da letto.

Ma, le voci. Come trattenere il ricordo delle voci? Vorrei sentirle, le vostre voci. Papà a recitare antipoesie per farci ridere a crepapelle, mamma a cucire arpilleras di iuta come le “canzoni dipinte” di Violeta Parra: donne dai lunghi capelli filamentosi su cui germogliavano i fiori, chitarre da cui sgorgavano sgargianti uccelli tricefali suonate da contadini dai corpi massicci. Le arpilleras, i sacchi di patate con cui mi avvolsero dalla testa ai piedi, per poi saldarmi una rotaia sulla cassa toracica. Le portavano da una caserma vicina, le rotaie, per non correre il rischio che riaffiorassimo una volta sganciati nell’oceano.

Il suo alito sapeva di fumo e di cibo maldigerito. Come se non si lavasse i denti da settimane. Chiudevo gli occhi e trattenevo il respiro per non vomitare. Quando comprese che non avrei parlato, le sue mani divennero una morsa sulla mia faccia, come se volessero accartocciarla.

Uscimmo fuori e la padrona di casa stava ancora lì nel patio, pallida, gli occhi apprensivi. Stringevo la mia Olivetti e riuscii solo a dirle: – Dica a mio padre che sono andata via.  

Nell’acqua salata i suoni viaggiano più veloci che nell’acqua dolce, ma li percepiamo attutiti perché il padiglione auricolare ha la stessa densità dell’acqua. Lo sciaguattìo delicato dei pesci più piccoli, il frusciare ruvido delle alghe, il canto segreto delle conchiglie. Il lamento degli altri morti ammazzati. Sussurri.

Donna libera, sempre sarai cara al mare.

 

(Il racconto è ispirato alla storia di Marcela Soledad Sepúlveda Troncoso. Me vuelvo arena è il titolo di una canzone del gruppo cileno Merkén, scritta da Camila Vaccaro).