Essere donne: quasi un abbecedario

Con la profondità analitica che chi segue questo blog e le discussioni sul nostro social forum ha ormai imparato a conoscere, Monica/pontitibetani va direttamente al nocciolo della questione, interrogandosi su cosa sia il femminile o meglio che cosa nel femminile sia particolarmente importante testimoniare. E quasi subito tira in ballo il tema cruciale del corpo: quello che siamo, la nostra memoria, la nostra storia, il nostro narrarci, tutto questo passa attraverso il nostro corpo. In un tempo in cui siamo bombardati da immagini di corpi che sono per lo più pezzi di carne avulsi da una storia, come ridare valore vero alla nostra corporeità? Come sottrarci alla banalizzazione che la scoperta del corpo come fulcro dell’identità ha subìto senza rinunciare a questo spazio di fondamentale definizione di noi? Lo stereotipo imita il pensiero, o meglio il pensiero procede per strutture pregresse, già costruite, è per questo che gli stereotipi attecchiscono così facilmente dentro di noi, perché hanno la stessa natura del pensiero. È per questo, anche, che i pensieri vanno fatti e decostruiti, buttati nella mischia, rimessi in discussione, riaperti e sviscerati ancora, soprattutto quando si cerca di parlare dell’identità delle persone. Ecco, forse il pensiero per non scadere nello stereotipo deve rimanere vivo sporcandosi, cercando conferme e dissoluzioni nel contatto con altri pensieri. Monica non si sottrae mai a questo confronto, nemmeno con se stessa.

Cosa testimoniare?

Ho dovuto pensare a lungo come comporre la mia testimonianza, e poi ho aperto almeno 3/4 volte files, prendendo a narrare eventi che mi sembravano così specifici della mia vita, ma ogni volta mi sono scontentata da me stessa. C’era una domanda iniziale, che mi facevo e rifacevo, la quale finiva per cassare molti argomenti

Cosa avrebbe reso la mia testimonianza significativa del femminile, e nello specifico del mio femminile, collocato nella “mia” vita?

Ci sono cose del femminile che sento ovvie, dall’esser morfologicamente femmina, all’esser altrettanto fisiologicamente strutturata per la maternità (come ogni femmina, si intende, ed indipendentemente dalla realizzazione di una maternità),

come l’ovvietà di aver due gambe in grado di correre, poi sta a me esser una maratoneta. Ma a parte ciò molte altre cose di me le avrei potute raccontare, similmente,  anche se fossi stata uomo.

Allora qual era ed è l’essenza che può qualificare il mio femminile in quanto tale?

Ammetto un dubbio: non lo so. Non saprei definirlo ma al tempo stesso so che la mia esperienza dello stare al mondo è sempre filtrata dal mio corpo, un corpo di donna.

Sono stata anoressica ma nemmeno questo è o sarebbe – a mio avviso – qualificante, molte donne hanno o hanno avuto problemi alimentari in questa fase storica, quindi questa specificità non ha nessun merito, demerito, gloria o valore. Ma è stata la successiva ri-scoperta delle possibilità insite nel mio corpo a dare un grande valore al femminile e alla sua specificità; una scoperta letterale – avvenuta durante il percorso formativo come psicomotricista – come a dire la scoperta dell’ABC del mio stare al mondo, filtrato dall’insieme inscindibile di corpo e mente.

MI è sembrata, allora, una sorta di epifania, quindi non solo una esplorazione formativa, professionale, e personale: il mio stare al mondo passava da un corpo (il mio) e da un corpo specificatamente femminile.

Punto.

Non faccio categorie se sia meglio o peggio un corpo maschile o femminile, solo ciò che vivo e che faccio, ogni giorno, passa da qui.

Svolte.

Lavorare: con divertimento e passione, fare una opera creativa della mia professione, e di ogni giornata di lavoro;  usare la capacità di lavorare in modo non competitivo ma collaborativo.

Guidare: ha dato la forma e voce alla mia libertà di andare e tornare, di essere indipendente, osando la solitudine di certi viaggi che hanno sbeffeggiato la paura di “fare” da sola.

Crescere: la mia prima figlia (da sola, per alcuni anni e da madre separata). Imparare ad essere responsabile di lei, di me stessa e dei miei errori; saperli rendicontare e sapere che ne pagherò il conto. Crescere lei, crescendo me stessa, imparando che essere adulta per lei era una chance per me.

Studiare: una passione irrisolta, come studentessa inconcludente da giovane, come vera appassionata da adulta. Il gusto di saper giocare ad essere una absolute beginner, per imparare a ridere delle mie goffaggini. Per imparare. Per insegnare, continuando ad imparare.

Ecco tutto! Rileggendo la introduzione alla mia testimonianza mi rendo conto che narrare me stessa qui, corrisponde ad una nuova nascita, ad una ulteriore ri-definizione di me stessa, della mia forma e dei miei confini; così simile al rinnovarsi del femminile nelle sue ciclicità, nelle sue rivoluzioni ormonali che scandiscono certe fasi esistenziali, e che le determinano.

Un femminile che mi pare assai simile al contenere e poi partorire un figlio, o un progetto, o un’opera.

Tempi lunghi per generare.

E so che questa ridefinizione/narrazione di me stessa non finisce qui.

Questo che fa di me una donna pensante, e di queste parole scritte di una narrazione del femminile?

Una che attraversa la vita usando/vivendo se stessa, mentre tenta di non essere usata come uno specchio vuoto delle fantasie altrui, di non essere reificata, mantenendo la propria presenza in ciò che fa, sia essa una grande opera o una piccola opera quotidiana?

È questo?

Monica/pontitibetani