Donna Haraway e il pensiero tentacolare dello Chthulucene
La prima volta che la lessi, lavorando per la tesi di dottorato, Haraway mi lasciò piuttosto scettica. Ma in queste studiose che sto riprendendo in mano o conoscendo per la prima volta c’è un tratto comune: l’imprevedibile evoluzione che è frutto della consapevolezza che apertura significa balenare dell’imprevisto. Nessun granitismo assertivo, dunque. E molta gioiosa ironia, anche su sé stesse. Guardando Donna Haraway in qualche video poi, non ci si può non lasciar contagiare dalla sua risata aperta e dalla sua voglia di scherzare.
Questo scritto è la sintesi di una presentazione della sua visione fatta dalla ricercatrice indipendente Irene Ciccioni che, insieme a Claudia Durastanti, ha tradotto in italiano Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto.
Chi collega Haraway essenzialmente al Manifesto cyborg (1985), potrebbe ritenere che la studiosa abbia spostato il suo interesse dalla tecnologia alla natura solo oggi; in nuce questa evoluzione del suo pensiero così com’è espresso in Chtulucene era invece già contenuta nella fase dei testi sul cyborg, in nome di quella tentacolarità, che è una delle immagini del suo pensiero che emerge da questo libro. Cos’è? Fili e tentacoli sono due metafore ricorrenti e servono all’autrice per promuovere un modo di pensare diverso.
Conia inoltre la parola chtulucene, che si genera nella sua consueta densità di immagini e connessioni: c’è un ragno citato da Lovecraft, il PimoaCthulhu a cui Haraway sposta polemicamente un’acca, per prendere le distanze da Lovecraft, del cui pensiero ha sempre voluto evidenziare i limiti, ed evocando così, proprio attraverso questo scarto, il termine greco ctonio, che indica le creature sotterranee ma anche sottomarine, le creature delle viscere. In un’unica parola si trovano già mobilitate una serie di figure.
Haraway nasce come biologa, il suo mentore Evelyn Hutchenson aveva un approccio alla biologia molto aperto ed eclettico (insieme alla scienza proponeva opere di fantascienza, cinema e forniva input da varie altre discipline). Haraway studiò soprattutto biologia evolutiva e dei microrganismi.
Poi si trasferì in California, al dipartimento di Teoria della coscienza dell’università di Santa Cruz, dove arrivò a occupare la prima cattedra di teoria femminista. Le è sempre interessato lo studio semiotico della scienza: la scienza non è un dogma, ma il risultato di una serie di relazioni definite attraverso una produzione di significati che si esprime nei modelli scientifici con cui si studia la vita. Dedicò la sua tesi di dottorato allo studio della metafora nella biologia, notando che 1) nello studio degli embrioni in biologia la bellezza che si riesce a osservare al microscopio è un forte propulsore; 2) i modelli con cui si studia la vita si servono tutti di metafore e miti, che sono imprescindibili per veicolarne i contenuti. Questi elementi tornano in maniera evidente in Chtulucene.
La teoria biologica sta tendendo a concentrarsi sulle relazioni, altrimenti il 90% dei fenomeni non si spiega. La vita a livello microscopico è molto più cooperazione alla vita che lotta per la vita (darwinismo). La Terra non è un pianeta autopoietico, ma simpoietico: si crea cioè dalle relazioni. Penso a Lynn Margulis, citata en passant anche da Rosi Braidotti nel dialogo con Anna Maria Crispino che ho riassunto qui. Irene Ciccione riporta come esempi di metafore del pensiero tentacolare i coralli, che stanno scomparendo, e il polpo, che è molto più antico della specie umana: abitante di quelle profondità, di cui dovremmo tentare di recuperare la potenza. Ma poi ecco che esce il nome di Lynn Margulis. Dopo avere condiviso con James Lovelock la teoria di Gaia, Margulis, che a Lovelock salvò la vita facendogli impiantare, dopo un malore, il pacemaker che poi gli ha permesso di vivere fino a 103 esatti, si concentrò sulla messa in evidenza del ruolo della simbiosi nell’evoluzione. A lungo la sua importanza nella biologia non venne riconosciuta, ma ora la si è finalmente compresa e la ricerca sulla simbiosi va ampliandosi.
In un suo saggio sulla produzione del linguaggio scientifico a proposito dell’attività del sistema immunitario, nel 1991, Haraway sottolineava come esso faccia soprattutto uso di una retorica militare irta di metafore belliche (invasore/alieno nel corpo). Ciò, oltre a provocare effetti negativi anche sul secondo membro della metafora (l’invasore umano, lo straniero), ha inibito l’evoluzione della disciplina e ha limitato la percezione della natura e del funzionamento del nostro stesso corpo e ha ostacolato nella comprensione delle pandemie, perché si mirava a distruggere il virus non a conviverci (penso quasi in simultanea alla condanna di Lidia Menapace di ogni compiacimento/indulgenza militarista nel linguaggio comune e a come Michela Murgia seppe parlare del suo tumore, ricevendo anche dure critiche). La relazione e l’interazione è invece l’unico processo che ha senso osservare perché non siamo separati, nulla è irrelato. L’infezione serve all’evoluzione: organismi unicellulari infettatisi ne hanno prodotto di pluricellulari.
L’altra traduttrice dell’edizione italiana di Chtulucene è Claudia Durastanti che si dimostra arguta interlocutrice di Haraway. Sintetizzo questo bell’incontro a distanza per il Salone del Libro di Torino 2020 a cui partecipa anche la più che eclettica Loredana Lipperini, che del making kins ha fatto la sua arte.
In che modo il pensiero dello Chtulucene è un pensiero tentacolare e come può arginare il pensiero della catastrofe?
Lo Chtulucene è il tempospazio ctonio, il tempo dei terrestri: qui le esigenze e i bisogni degli umani non sono esclusi ma sono relazionati con altri esseri, macchine e organismi, con cui interagiscono. Tempo che la interessa come tempo in cui vivere e morire insieme all’altro. Un vivere e morire materiale, situato, che si snoda su tante scale spaziotemporali. Significa essere sulla Terra nella sua complessità, contro l’idea dell’eccezionalità umana, non contro gli umani.
La parentela si esprime su diversi piani, la solidarietà è sfaccettata. DH è consapevole del proprio privilegio e di come la pandemia (in corso all’epoca dello scambio) abbia fatto risaltare duramente le differenze sociali. La solidarietà implica anche esercitare una pressione politica affinché l’educazione scientifica si espanda. A chi può giovare la convivenza col virus? Per chi è pericolosa? La solidarietà interspecie non è in mera contrapposizione alla solidarietà fra esseri umani come il solito pensiero unico e banalizzante vorrebbe far credere. La coscienza-Chtulucene dunque non è antiumana, ma piuttosto contro l’antropocentrismo. “Insieme agli altri” non è mai solo umano: occorre ragionare sul virus in modo da rendere l’ambiente meno propizio alle pandemie, in sintonia con una molteplicità di specie verso i cui habitat gli esseri umani hanno dilagato e sono penetrati rendendo vulnerabile l’Antropocene stesso. Evitiamo anche qui le metafore belliche e cerchiamo altri tipi di serietà che non ci rinchiudano in una fortezza, ma che vogliano riparare il mondo per tutti.
Perché nei femminismi è così difficile accettare che siamo esseri soprattutto culturali e non naturali? (domanda della Lipperini, dicotomia messa in discussione e comunque non ritenuta pertinente da molto femminismo europeo)
Non è solo nel femminismo, veniamo da una storia in cui la natura si è voluta considerare qualcosa di diverso dall’umano. La cultura si è voluta contrapporre alla natura, in un comodo (per qualcuno) e miope binarismo. Il genere stesso non è né solo culturale né solo naturale, ma qualcosa per cui non abbiamo parole. Per colmare lacune come questa, Haraway ha coniato parola tipo “naturalculturale”. “Viviamo già in mondi profondi e complessi fatti di solidarietà, di cura, e con una fame di giustizia e di cura, di capacità concrete di farlo, di modi seri di vivere bene con altre specie”. C’è un’abbondanza che non cogliamo. Compito nostro è farla percepire e silenziare le rappresentazioni chiuse, fasciste, discriminanti, renderle sempre più piccole. Forse dovremmo anche imparare a informarci dei movimenti delle altre perché tante volte sottostimiamo quanto già esiste oppure lo fraintendiamo, escludendolo (fa l’esempio della banalizzazione dell’ecofemminismo da parte delle femministe materialiste), ci mettiamo sulla difensiva. Serve invece apertura e senso dell’umorismo.
“Make kins, not babies“: è uno degli slogan di Chtulucene. Qual è la relazione secondo DH fra femminismo e giustizia ambientale?
Voglio vivere in un mondo a favore dei bambini e non in un mondo soltanto a favore della natalità.
Chiara mi suggerisce questo bell’articolo sull’opera di Eva Meijer, a tema: https://www.iltascabile.com/linguaggi/materia-viva/