Io e la lingua italiana

Praticare la lingua dell’altro fino al punto da riuscirci a raccontare attraverso di lei, riscoprendoci trasformati dal suo timbro, dal suo lessico, dai suoi suoni: la mia amica Sara, dei giri lisboneti e di quella lunga chiacchierata davanti all’oceano in un posto che si chiama Telheira da Foz, dove finisce la ferrovia, la mia amica dalle parole precise e poetiche, pronunciate con voce un po’ roca in portoghese, la lingua meravigliosa in cui amo rifugiarmi e cercare quello che non trovo più nella mia, la mia amica fa proprio questo nel post che pubblico oggi: un formidabile esercizio di alterità, la strada che tante volte ci porta un po’ più in là nel farci conoscere noi stessi e quello che ci sta intorno.

All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni,

le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua. Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua.

Agota Kristof, L’analfabeta

Incontrai per caso questo piccolo libro alla Libreria delle Donne a Bologna. Me ne aveva parlato di questa “strana” libreria la mia amica italiana Silvia. A Lisbona ancora non ce n’era una così (e non c’è neanche oggigiorno) e anche per questo il luogo mi ha subito incuriosito. Ma quello non era il solo motivo che mi spinse a fare delle esplorazioni attraverso le vie labirintiche di Bologna: ogni volta che uscivo di casa portavo con me una cartina della città, convinta (e speranzosa) di perdermi appena uscita dal portico di Via Marsala, dove abitavo. Avevo in me, nei primi tempi, quella sensazione di essere alle prese con una meravigliosa avventura, consapevole di vivere attimi straordinari in un luogo particolarissimo e irripetibile. Ancora oggi sento la necessità di chiudere gli occhi e tornare a ripercorrere le vie e i tratti di strada preferiti di quella città:  Piazzale San Francesco, Via Ugo Bassi, Piazza Maggiore, Via Rizzoli, Due Torri, Via Santo Stefano (Gelateria), Piazza Santo Stefano (la più bella piazza di Bologna in assoluto). Perciò trovare quella libreria diventò in quel momento una vera e propria sfida da non perdere. Meno male che l’ho fatto, perché lì scoprii questo libro che oggi mi aiuta anche a capire meglio e a parlare con più chiarezza del mio soggiorno italiano.

Ero giovane ma non così tanto, sapevo qualcosa dell’Italia (di sicuro di più quanto la maggior parte degli italiani conoscono del Portogallo), ma non ero forse preparata per alcune realtà e difficoltà, come tutte le burocrazie legate al fatto di essere comunque, sempre e indelebilmente, una straniera. Essere una “straniera” è uno status e una percezione che cambia sicuramente di paese in paese. Fino a quel momento non lo avevo mai sentito. Non conoscevo le frontiere e sono cresciuta sulla scia di quella sorta di promessa di felicità regalata dall’idea di una Unione Europea unita e prospera. Ecco perché mi hanno davvero stupito delle pratiche e degli atteggiamenti di chiusura e di ignoranza dell’altro “accanto” (figuriamoci dell’altro lontano): l’inesplicabile permesso di soggiorno, gli ostacoli all’apertura di un normalissimo conto in banca o alla riscossione di un semplice assegno con lo stipendio mensile, lo sguardo sospettoso dei padroni di case da affittare,  la mancanza di rispetto dei diritti più fondamentali sul lavoro. Ricordo con amarezza tutti i disagi, i problemi e le perplessità del mio lavoro: le cause in tribunale dei lettori di lingua straniera nelle università italiane ancora in corso, lavorare senza contratto e senza soldi per tutto l’anno accademico, la non legittimazione del lavoro stesso, l’angosciante incognita sul futuro alla fine dell’anno, ecc., ecc.

Ma ora, qui, vorrei tornare in quella Libreria, riprendere le parole di Agota Kristof e parlare di quello che mi lega in maniera più profonda e densa allo spessore di questo paese: la lingua. Il mio rapporto con la lingua italiana ha già compiuto sei anni. Da parte mia non c’è mai stata una resistenza, un’opposizione. Da parte sua non ho idea, ma spero di no. Siamo sempre andate d’accordo una con l’altra, sorpassato il normale imbarazzo che invariabilmente segue le prime presentazioni. In questo momento la lingua italiana non abita più in Italia: ha viaggiato, è stata con me nel Sudest Asiatico per più di un anno e adesso l’invoco davanti al fiume Tago e all’oceano Atlantico. Ogni volta che posso sprofondo in questa lingua, mi sporco come se lei fosse uno stagno, cercando di estrarre dalla memoria tutto ciò che so, tutto ciò che ricordo e che con lei ho imparato, tutte le parole che ho usato per descrivere i posti che ho visto e per conoscere la gente che ho incontrato e che non vorrei mai perdere. Non so bene perché, ma per esempio mi sono sempre piaciute le parole che cominciano con il gruppo consonantico sb- (sbaglio, sbaraccare, sbadigliare, sbirciare, sbalzo, sborone, sbolognare…), ritrovo un immenso piacere e divertimento nella loro pronuncia. Quando mi porto a spasso, di solito mi distraggo facendo degli enormi elenchi di parole con sb- all’inizio.

Quando sono arrivata in Italia non sapevo un’acca di italiano, o meglio, sapevo quel paio di parole che quasi tutti al mondo sanno. Non ho mai fatto un corso di italiano, la lingua l’ho imparata per strada, con i miei alunni, con la sorella del mio fidanzato dell’epoca, fino a raggiungere un livello di sopravvivenza accettabile. Ho letto tanto e ho scoperto con questa lingua tutta una letteratura (nel mio paese non traduciamo tanto). Mi sono avvicinata e interessata al vissuto narrativo della Seconda Guerra Mondiale, qualcosa che mancava dalle mie parti. Mi sono commossa con Natalia Ginzburg, con Primo Levi, con Rigoni Stern… Mi sono meravigliata con i vecchi e dignitosi partigiani in piazza per il 25 aprile (tra l’altro anche la data della nostra rivoluzione). Ho legato i fili sottili della Storia e mi sono trovata a fare delle ricerche su altre donne portoghesi che, come me, in altri tempi e in contingenze molto diverse, si sono trasferite in Italia. Solo due esempi: una è, senza dubbio, Leonor da Fonseca Pimentel, la portoghese di Napoli, repubblicana convinta, intellettuale apprezzata e giornalista pioniera, uccisa per motivi politici dalla monarchia; l’altra invece è Maria Farnese del Ducato di Parma e Piacenza, dove ho anche vissuto e dove la sua presenza è ancora oggi rintracciabile in tanti gli angoli della città. Mi piace pensare che forse con loro abbiamo condiviso una piazza, più di un palazzo, un giardino, oppure molto probabilmente un forte sentimento di nostalgia, lo stesso che provo adesso.

Sara Ludovico.

Nell’immagine Agota Kristof a Venezia mentre legge brani di “La trilogia della città di K”.