“Educazione al genere”… chi era costei?

Appunti di educazione al genere /3.

La situazione disastrosa che l’Italia evidenzia rispetto alle discriminazioni di genere, puntualmente rilevata dal prezioso rapporto-ombra del Cedaw, ha ovviamente le sue ripercussioni e, insieme, le sue cause, nella sostanziale assenza di questo tema dai più importanti ambiti educativi. L’unico centro di ricerca italiano che congiunge genere ed educazione è il CSGE (Centro Studi sul Genere e l’Educazione), fondato dall’università di Bologna nel 2009. Nell’ambito della ricerca, infatti,  il legame tra genere ed educazione non è tematizzato a livello nazionale, come viene rilevato anche dalla Commissione Europea che immortala lo stato delle cose in termini lapidari: “In Italy gender inequality in education is not a question of concern”. Manca, a quanto pare, la capacità politica di promuovere linee nazionali d’indagine e questo si riflette anche negli studi degli specialisti: verso il concetto di genere permane un sostanziale disinteresse, una scarsissima sensibilità, che si traduce in quella sorta di rimozione che di tutto ciò che ha a che fare con questa categoria si fa nella società italiana. In questo senso è estremamente significativo che, nella recente riforma della scuola secondaria del marzo 2010, il termine genere, come sottolinea Silvia Leonelli nel saggio che citavo qualche giorno fa, non venga mai neppure nominato.

Analizzando più da vicino la Riforma Gelmini della Scuola superiore, scopriamo che, negli allegati A,B,C dove ci si occupa delle competenze e delle abilità che devono arrivare a comporre “il profilo educativo, culturale e relazionale dello studente a conclusione del 2° ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione”, nonostante si parli di “crescita educativa e culturale” degli adolescenti, del loro “processo di costruzione dell’identità”, delle “capacità relazionali”, della necessità di fare riflessioni critiche, di analizzare gli stereotipi, di “saper essere”, non si entra mai nel merito delle questioni di genere. Solo per i licei, poi, è previsto l’obiettivo di “educazione alla relazione e all’affettività” che deve toccare i seguenti punti:

–                     differenti punti di vista sul rapporto uomo-donna nelle diverse culture

–                     caratteristiche di una sessualità responsabile

–                     relazioni affettive e sessuali nell’adolescenza e nella vita adulta

–                     riconoscere in diverse situazioni sociali il “rapporto esistente tra affettività, sessualità e moralità”:

Come ben osserva Leonelli, l’ultimo punto fa capire in modo piuttosto eloquente quale sia la “cornice valoriale che, presumibilmente, deve ispirare tutti i punti precedenti” (p. 37). Pare evidente come si stia lavorando  per costruire una scuola che – nella migliore delle ipotesi – si occupi solo di istruzione e non di educazione.

Poco più di un anno dopo aver “dimenticato” di inserire la sensibilità rispetto alle differenze e alle discriminazioni di genere nell’ambito dei nuovi programmi per la scuola secondaria, il ministro Gelmini ha messo una pezza firmando, insieme all’allora ministro delle pari opportunità Mara Carfagna uno di quei protocolli che brillano spesso per la loro inconsistenza e vaghezza (e la memoria corre al protocollo firmato sempre dalla Carfagna con lo Iap, contro le immagini pubblicitarie lesive della dignità femminile) e che hanno tutta l’aria di essere maldestre mosse politichesi per coprire vuoti istituzionali molto gravi che impediscono alle volontà professate in questi accordi di essere realmente operative. L’accordo, firmato nel giugno 2011, puntava a inserire all’interno dell’insegnamento “Cittadinanza e Costituzione” una nuova disciplina sul tema del rispetto e della valorizzazione delle differenze di genere,  a promuovere in ogni istituto corsi di formazione per sensibilizzare il personale docente e gli studenti, a facilitare la creazione di gruppi di lavoro sulle pari opportunità e le diversità di genere che collaborino con associazioni del territorio (valore simbolico e potenziale positivo del documento). Con quali risorse e con quali attori non è ben chiaro.

Ma perché il tema del genere viene eluso dalle istituzioni nella fase trasformativa della pre-adolescenza e dell’adolescenza?

Probabilmente perché affrontarlo implica la necessità di abbordare questioni scottanti, che hanno a che fare con l’orientamento e la pratica sessuale, con il desiderio (questo sconosciuto!), e che richiedono all’educatore di avventurarsi in un terreno sdrucciolevole che in tanti preferiscono evitare. Ed è così che ambiti cruciali della vita reale delle ragazze e dei ragazzi vengono elusi o addirittura scartati e questo, forse, spiega anche come mai la scuola sia sempre meno popolare fra gli studenti, come fatichi a far presa sui loro vissuti reali e sia sentita spesso come un’entità avulsa dal loro mondo, troppo lontana dalla verità delle loro esistenze quotidiane, delle loro emozioni, dei nodi che li prendono alle viscere e dei loro immaginari.

Docenti ed educatrici/ori sono portatori di un modello ideale di uomo/donna/relazioni che influenza la loro azione e rischia di essere trasmesso più o meno preterintenzionalmente agli adolescenti. Il fatto che l’educazione al genere non sia obbligatoria nlla formazione di base di educatrici ed educatori fa sì che questo processo di trasmissione di valori e modelli avvenga per lo più in una sostanziale e cieca inconsapevolezza. [continua]