LE DIFETTOSE: un romanzo anche un po’ filosofico sull’infertilità


Leggere Le difettose, il romanzo di Eleonora Mazzoni uscito pochi mesi fa con Einaudi, mi ha dato la prova lampante di quanto la tesi audace che scaturisce dal saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti di Adriana Cavarero, e cioè che la filosofia che vale più la pena praticare oggi è la filosofia della narrazione, colga nel segno. Per giungere al vero, concetto sfuggente e quasi sempre intrinsecamente contraddittorio, bisogna scentrarsi, frequentare il pulviscolo disperso delle storie individuali, perché è attraverso l’occasione di empatia offertaci da ogni racconto di vita che possiamo sperare di giungere a un sentire condiviso. Unicità transitive le chiamo io: lo stesso principio che sta alla base della nostra raccolta Svegliatevi, bambine! creata con quelle che abbiamo chiamato le vostre narr-azioni, proprio a sottolineare la potenza performativa che sta nell’atto di de-privatizzare la propria o l’altrui storia per gettarla nel mondo. Una strada alternativa alla nefasta tendenza universalizzante che violenta le singolarità per poter generalizzare, nella pretesa di parlare a nome di un tutto che è in realtà molto meno affollato di quanto non si vorrebbe far credere.

Il nucleo tematico del romanzo di Eleonora Mazzoni è soltanto uno, e non può che essere così, visto che quella che Le difettose ci racconta è la storia di un’ossessione, che, in quanto tale, non lascia spazio ad altro, risucchiando ogni angolo dell’essere: il desiderio bruciante e insopprimibile di avere un figlio. Desiderio selvaggio e dispotico, un richiamo ancestrale forse, contro cui ogni obiezione raziocinante dettata dal tiepido buonsenso, suona inopportuna e vuota. Fuori luogo e fuori codice anche, poiché ogni proposta di “soluzione” alternativa è come una lingua sconosciuta che si muove a un livello talmente estraneo da risultare incommensurabile con la volontà di chi un figlio, semplicemente e sopra ogni cosa, lo vuole.

Pur coagulandosi attorno a un grumo di desiderio che, ridotto all’osso della sua etimologia, è vero e proprio buco di una mancanza talmente sofferta da desertificare tutto ciò che la circonda, Le difettose costruisce il ritratto attento di una persona, riuscendo a parlarci al di là di una contingenza che può essere o meno la nostra. De-siderare letteralmente significa “smettere di guardare le stelle” e in questo distacco dalla contemplazione per passare risolutamente all’azione c’è forse una delle chiavi per leggere l’atteggiamento di tante donne che con una determinazione che sconfina nell’accanimento cercano febbrilmente di avere un figlio, perdendo di vista il resto o continuando, obbligate dalle incombenze quotidiane, a occuparsene, ma con la volontà concentrata in quell’unico cruciale obiettivo. Insisto sulle etimologie perché anche il fatto che Carla, la protagonista, sia una latinista non mi pare un particolare accessorio: il suo mestiere ha invece un peso fondamentale nell’economia narrativa delle Difettose e ancor di più il fatto che il suo autore, su cui sta tentando faticosamente di scrivere un saggio, sia Seneca, filosofo stoico che ben conosceva la forza distruttiva del desiderio e che aveva elaborato un pensiero teso non alla repressione delle passioni ma più realisticamente a un loro assorbimento in una prospettiva di autosufficienza ed equilibrio. La percezione che Carla ha delle cose è profondamente intrisa del pensiero del filosofo latino, pensiero che, tuttavia, non le impedisce di avvertire in tutta la sua visceralità il bisogno di diventare madre. Questo contrasto mi pare un tratto particolarmente riuscito del romanzo, perché, in un certo senso, squaderna nella sua evidenza l’irrisolutezza cronica che insidia ogni questione cruciale, come se tutto ciò che è umano non potesse mai avere una sola faccia. I riferimenti a Seneca, che stupiscono per la loro bruciante attualità, vanno sottilmente costruendo una trama che ci conduce verso il finale. Sorprendente eppure, a leggere il testo in filigrana, prevedibile.

Questo accostamento originale fra i ricordi personali, guardati con un misto di affetto e rimpianti, gli scambi di informazioni e sostegno fra donne che stanno lottando contro l’infertilità nei forum sul tema, sospesi tra i gerghi informali della rete e i tecnicismi che tutte coloro che hanno tentato di rimanere incinte per via medica conoscono bene, le riflessioni sulla sensazione di colpevolezza che ogni donna insieme desiderosa e incapace di procreare avverte su di sé come una maledizione atavica – un retaggio gravoso e umiliante che il titolo del romanzo coglie con icastica efficacia – e i passi dello stoico latino che imperla di una saggezza dimenticata avvenimenti che solo si possono dare nella contemporaneità più recente dà al libro un ritmo elegante e una profondità inattesa, acuisce lo sguardo di chi legge schiudendogli una polifonia avvolgente:

“Forse è semplicemente tardi, sempre più tardi”, penso mentre salgo sull’autobus per andare al mercato.

A nove anni mia madre mi ha insegnato a cucinare perfettamente. Ho avuto le prime mestruazioni a dieci. A undici il mio vicino di casa mi ha dato il primo bacio con la lingua. A undici e tre quarti la prima sigaretta. A dodici ho vinto le gare regionali di ginnastica artistica e mi sono piazzata ottava alle nazionali. A tredici e mezzo frequentavo tre volte la settimana le discoteche della riviera, con tacchi vertiginosi e trucco marcato. A quattordici e mezzo mi sono rotta tibia e perone cadendo dal motorino, ho detto addio alla ginnastica artistica e ho subito un mese di ospedale, due operazioni e sei mesi tra sedia a rotelle e stampelle. Non avevo ancora finito la riabilitazione e sono finita a letto con Carletto. A diciotto sono andata a vivere da sola per seguire l’università a settanta chilometri dal mio paese. Dal lunedì mi tenevo Giorgio come amante a Bologna, i week-end li passavo con il mio fidanzato Dante in Romagna. A ventitre, dopo la laurea, mi sono trasferita a cinquecento chilometri di distanza per il dottorato.

Poi mi sono fermata e tutto ha ricominciato a ripetersi. Perché non mi sono accorta che il tempo continuava a trascorrere? Dove diavolo ero mentre la sabbia scolava giù tanto in fretta? Cosa stavo facendo?

Perché ti lamenti? La vita è lunga se sai utilizzarla bene.

Sei tu, Seneca?

Sono io. Per dirti di aver cura del tempo che finora ti è sfuggito. Non ne abbiamo poco, ne abbiamo perduto molto.

In effetti il mio si è assottigliato di botto senza che me ne rendessi conto, è diventato fino fino, e ora mi sta stretto come un abito di due taglie più piccolo. Ma dove l’ho buttato, che adesso mi sento in ritardo su ogni cosa? Era il 1993 quando mi sono laureata. Chi mi ha depredato dei successivi diciassette anni? (pp. 49-50)

La scrittura di Eleonora Mazzoni, che nella vita fa l’attrice ed è al suo primo romanzo, è essenziale e sicura, orecchiabile ma mai banale, a tratti discretamente sensuale, a ritagliare un orizzonte in cui la pienezza del sentire sa costruirsi proprio a partire da ciò che resta o, persino, dall’assenza. Senza compiacimenti né indulgenze. Non c’è servilismo nei confronti del tema che riesce a essere centrale e insieme spunto per dire anche altro e andare oltre pur restando sul pezzo. Fra gli spezzoni di vitae indignatae come sono quelle dei bimbi periti prima del tempo,  come il primogenito della nonna della protagonista, nonna Rina, meravigliosa figura femminile che getta sul romanzo una luce di bellezza, forza e dolore, o tutti i bambini che non arrivano a nascere, promesse di maternità rimandate talora per sempre, l’autrice ritaglia la sua personale filosofia di vita, un miscuglio di disincanto e ostinazione, di ribaltamenti paradossali rispetto al senso comune anche, con quella capacità di trasformare il difetto in risorsa, in potenziale corrosivo, che è poi, in fondo, proprio la creatività:

Forse in futuro sembrerà ridicolo il senso di possesso genetico dei figli. Si faranno con incastri variegati e incroci arditi. Ci sarà un vitale meticciato dei genomi, come già esiste quello delle razze. In fondo cosa ci sarebbe di male? Ci sono a piede libero tanti genitori scriteriati e pericolosi, perfettamente regolari. Di quelli non ci si preoccupa? Se avessi avuto un figlio a quindici anni che terrificante madre naturale sarei stata?

Una nuova umanità concepita nelle fabbriche della vita. Ogni embrione potrebbe avere una madre doppia o un padre doppio. Oppure un padre doppio e una madre doppia. O addirittura tripla. La madre che decide di esserlo, la donatrice dell’uovo e la donna che affitta l’utero. Uomini e donne non più singolari, ma plurali e composti. Figli amati, desiderati, immaginati nei cuori e nei corpi di tante persone. Una moltiplicazione degli affetti. Un’esplosione delle origini. Donatori di vita misteriosi, lontani, sconosciuti, e genitori presenti e responsabili. Fratellastri e sorellastre ignoti in giro per i cinque continenti. Il monoteismo genetico sembrerà una faccenda primitiva. (pp. 140-141) 

 

 Eppure, rispetto alle madri “secondo natura”, noi “difettose” abbiamo una marcia in più, con quel figlio che non “capiterà” mai per caso, così amato tanto tempo prima di essere concepito. Accasciata sulla seggiola, nel bollore di questa sala d’spetto, mi sento parte di qualcosa di grande. (p. 155)

Non un romanzo a tema che per parlare di infertilità dimentica che la letteratura ha natura onnivora e sembianze multiformi ma, più semplicemente e per fortuna, un romanzo. Un bel romanzo.