Questa Cile di donna!
In Cile abbiamo rischiato di non arrivare. Sulle Ande continuava a nevicare e giù all’ostello di Mendoza, dove alloggiavamo, le notizie non erano buone: il tunnel del Cristo Redentor rimaneva chiuso. Un’eventualità che non avevo previsto neanche da lontano: e chi ci pensava all’inverno sudamericano, alla Cordigliera, al ghiaccio? Questo viaggio aveva preso forma così all’improvviso, luminosa nebulosa con pochi punti fissi, tante incognite… e dentro un invisibile magnete che da mesi, silenzioso e inesauribile, risucchiava laggiù la mia concentrazione.
Stanche di aspettare invano buone notizie dal valico, la mattina del 3 agosto abbiamo deciso di prendere comunque una corriera per Santiago: salire su per le Ande è un’esperienza che richiederebbe film diversi dalle scazzottate al testosterone di Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger, ma se ti concentri sul paesaggio cercando di isolare il silenzio dentro di te puoi farcela a riscattare un po’ di poesia. A me mi ha aiutata la neve, la visione di un lama qualche metro fuori dal finestrino e una certa mia naturale predisposizione allo straniamento.
Del famigerato tunnel me ne sono accorta che l’avevamo già passato. Tutto qui? Sarà forse che ogni cosa arrivava ovattata da quel biancore e da quella maestosità serena e noncurante? Ce l’avevamo fatta!
Di lì a poco il tunnel è stato nuovamente chiuso, ma questo lo abbiamo saputo solo qualche ora più tardi. Dopo una discreta attesa alla frontiera i tornanti hanno iniziato a scendere e ogni millimetro quadro che si stampava sulla mia retina ha cominciato a sembrarmi unico e remotamente familiare. Ero nelle terre di Violeta. Per lei, in particolare, sono partita: per Violeta Parra. Per dare odori, sapori, volti e paesaggi alla sua musica che tanto mi piace cantare. E questa settimana cilena dentro al nostro viaggio costellato di incontri e ritrovamenti è stata, come ama dire la Beatrice, un percorso nel femminile.
A Santiago siamo arrivate che aveva fatto buio da poco e là, per dire, ci aspettava Sara: è uscita ad accoglierci in strada, premurosa, aiutandoci a scaricare gli zaini dal taxi che ci aveva portate fino a casa sua, sulla lunghissima Avenida San Francisco.
Santiago non è Buenos Aires: è più lontana, in ogni senso. Un impasto di Messico e India con le Ande a cullarne gli umori sanguigni. Sara è marchigiana e lavora come chimica del restauro. È il mestiere che le piace fare e in Italia non c’erano le condizioni. Si muove elegante e flessuosa, con sguardo da cerbiatta, ma è un tipo tosto. Casa sua è vecchia e colorata, piena di oggetti e libri, dal mio punto di vista, altamente condivisibili. Maneggia con maestria la bombola del gas per spostarla dalla cucina al bagno e combatte contro l’umidità dell’inverno cileno con una buona dose di spirito pratico. Nell’intrico enorme di strade dai nomi eternamente uguali, Sara si sposta impavida sulla sua bicicletta.
L’attesa forzata a Mendoza ci obbligava ad andar di lungo: avremmo avuto sei giorni contati da stare in Cile, perché il 10 agosto avevamo il volo prenotato da Santiago per tornare a Buenos Aires dalla Vale.
San Carlos. Per me il Cile era arrivare a questo pueblo, nella regione di Bio Bio: il luogo dov’è nata Violeta Parra. Un’ostinazione ancestrale o comunque poco logica: Violeta visse lì soltanto i primi due anni della sua vita, per poi spostarsi con la madre, le sorelle e i fratelli nella vicina Chillán, fino a scegliere la capitale come base delle sue esplorazioni come recopiladora (raccoglitrice di canti) di musica popolare, nel nord e nel sud del paese, e dei suoi viaggi in Europa, nonché sede di quel posto un po’ magico che era la Carpa de la Reina, l’enorme tendone dove Violeta era riuscita a far confluire artisti di ogni sorta, nel nome di quella trasformazione sociale che la ricerca artistica mai dirottata da un impegno politico (inteso come reale contatto con le persone del popolo, con i loro (bi)sogni, aspirazioni, con le loro storie di vita) poteva, a suo avviso, decisamente favorire.
A San Carlos ci saremmo viste con Paola, conosciuta questo gennaio a Bologna, grazie al nostro meraviglioso amico Hugo: “C’è qui una ragazza del paese di Violeta! La devi conoscere!”.
Ed ecco che ci siamo ritrovate nel buio delle otto e mezza di sera a una fermata della corriera con solo uno stradone e una baracchina. A Santiago, in stazione, avevamo trovato subito – per caso – un pullman e non eravamo riuscite ad avvisare la nostra amica del nostro arrivo. Siamo entrate nella baracchina: c’era una signora gentile che vendeva bibite e dolciumi. Ci ha spiegato come usare il telefono a monete e ha parlato direttamente con Paola per spiegarle dove ci trovavamo.
Con noi sono entrati anche due venditori ambulanti di dolci, di quelli che salgono sulle corriere per vendere le loro cose, fanno un po’ di chilometri poi scendono di nuovo, amici di tutti gli autisti: uno era allegrissimo e ci cantava sbraitando tutto il suo repertorio di musica vaquera (così si chiama il country in queste lontane contrade), nazionale e messicana. La Bea ha provato a fermarlo con uno dei suoi acuti lirici ma è riuscito ad ammutolirlo quei cinque secondi, giusto il tempo di fargli tirar fiato e farlo riprendere a gran voce. Ridevamo parecchio per l’insolita accoglienza e lo stesso la signora e il collega del baldo ragazzone.
Comunque finalmente è arrivata la nostra amica, incinta al nono mese, con la sua mamma, Inés, che ci ha subito abbracciate con un gran sorriso luminoso stampato sul suo volto dalla bella carnagione olivastra. Ce l’eravamo sentito sulla corriera che stavamo viaggiando verso un posto di amore e allegria.
La casetta in legno, nella campagna in cui vivono queste donne insieme anche a Daniela, la sorella di Paola, con i suoi bimbi, Amanda e Francisco, mi ha riportato a certe sensazioni dell’infanzia, a quel calore in cui sappiamo che ci possiamo abbandonare protette. Il fuoco nella stufa trasparente, le verdure raccolte direttamente dall’orto, il pane e le empanadas fatte in casa, la deliziosa cazuela che intride l’aria di odore di brodo: assaporavo ogni dettaglio con concentrazione commossa.
Paola si era data tantissimo da fare per organizzarci degli incontri speciali. Quel pomeriggio ci aspettava Marisole Valenzuela, una di quelle persone che in Cile ha saputo raccogliere con più talento e umiltà insieme la complessa eredità emotiva e culturale di Violeta. Aveva chiamato Paola per dirle che ci stava aspettando per accoglierci “a la campesina”: nella tradizionale cucina in pietra, con il pavimento di terra e la stufa calda, gli attrezzi e un tavolo grezzo apparecchiato con sopaipillas e mate. Marisole è accogliente e senza vezzi: una semplicità cristallina, come la sua voce. Ci ha presentato suo figlio e il suo compagno, ci ha mostrato con passione il suo orto, le sue piante e poi ci ha portate nella cucina di pietra battuta e subito ha preso la chitarra. Lei è in tutto quello che la circonda e offre quello che ha con naturalezza, perché ciò che ha è quel che è: ci sentiamo immediatamente a nostro agio. Ha cominciato a cantare: brani suoi, canzoni che ha raccolto nelle campagne – anche lei, come Violeta, è recopiladora – ma soprattutto, per coinvolgere anche noi, canzoni di Violeta. È stato, quello, il momento in cui il fatto che fossi partita per il Cile sulle tracce di Violeta Parra ha avuto più senso. Il retaggio umano e affettivo, lo spessore complesso della musica legata all’apertura empatica verso l’altro: Marisole porta i frutti del suo lavoro di etnomusicologa nelle università di tutto il paese, ma soprattutto lavora in realtà marginali, dove i talenti per lo più rimangono inespressi. Lo spirito di Violeta, dentro una personalità indubbiamente diversa, ma la stessa intensità, come una parentela di sguardo sulle cose. Quando ci ha fatto sentire la canzone che le ha dedicato, una tonada, mi sono venuti sul serio i brividi, per quel suo affetto incondizionato, di chi non giudica ma sa accogliere e basta.
Marisole mi fa pensare che soprattutto canti quello che sei e che non ci sono trucchi che tengano. Poco prima che ce ne andassimo, suo marito, che per tutto il tempo l’aveva guardata con occhi pieni di ammirazione chiedendo in continuazione nuovi brani, mi ha regalato con orgoglio la bandiera cilena. Non sono un’appassionata di vessilli ma in quel momento mi sono sentita stranamente riconosciuta..
[continua]