L’isola bislacca
Lo scorso agosto, con la mia figlia tredicenne, siamo state qualche giorno in Islanda. Non immaginavo quanto i suoi paesaggi ruvidi e le sue opportunità di vuoto mi avrebbero sottilmente modificata. Il cambiamento lo misuri sulla tua immaginazione: a me capita delle volte che, nella congestione di certe giornate, la mente si stacchi a cercare spazio e ora mi accorgo che trovare quello spazio è diventato più comodo. In Islanda senti che tutto è pervaso da una comicità latente: la cosmica risata scaturisce da quello che noi umani possiamo percepire come un paradosso e che forse è solo mondo che scorre. Vita-morte-vita. Tutto questo gli Islandesi lo sanno e ne fanno parte. Silenziosi ed estremi. Allegri e strambi. Come nel romanzo La base atomica, del nobel 1955 Halldór Laxness, dove l’alta borghesia cittadina, ricca e corrotta, e il neocolonialismo degli Stati Uniti che installano una base militare sull’isola, sono resi grotteschi dallo sguardo straniante di Ugla, ragazza del nord non guastata dai “lussi” della capitale, col suo senso pratico, la sua curiosità spregiudicata, la sua vocazione alla giustizia, la sua simpatica fisicità.
Islanda è bufera che ti acceca mentre stai cercando di ricondurre le tue pecore nell’ovile, fino a seppellirti sotto una coltre di neve che sarà quasi subito una gabbia ghiacciata. Così è scomparso, quando erano bambini, il fratello minore dell’ispettore Erlendur, protagonista dei gialli di Arnaldur Indriðason, e da allora Erlendur convive con il rimorso di avergli lasciato la mano, intontito dal gelo, perdendolo per sempre e condannandosi all’ossessione di indagare su persone scomparse, anche dopo decenni. Islanda è anche pozze calde a sbocciare su lavica terra, calore liquido che ti scorre sotto i piedi. Terra che profuma di pane: abbiamo visto forni geotermici scavati nel suolo con dentro pagnotte fumanti e patate con la buccia già scrostata. La sua pelle scabra è una ragnatela di rigagnoli e ruscelli, cascate. Ogni contadino, aiutato da venti di una potenza a tratti spaventosa, può alimentare i propri impianti e talora addirittura vendere il surplus di energia idroelettrica alla nazione.
Non so se sia vivere dentro questa spopolata vertigine a rendere gli Islandesi mediamente più attenti a ciò che è piccolo. Passeggiando fino allo stradello che costeggia la baia di Reykjavík, ci incantavamo a guardare i dettagli soppesati delle stanze, inondate da tutta la luce possibile, infinita ed effimera. Non amano le tende, là dove il nord è nord, e le finestre incorniciano accoglienti quotidianità: una cura che non perde di vista l’essenzialità e che si traduce soprattutto nella creazione di ambienti caldi, dolcemente umani, con le foto di famiglia, il legno sopra sotto e di lato, i libri alle pareti, tanto colore. Le case sono rifugi che non temono lo sguardo dei passanti – senti circolare una ben riposta fiducia nel prossimo – rifugi dal freddo, dalla pioggia, dal vento, dalla neve, ma non da quella poca restante umanità con cui si condivide questo capriccio geologico, emerso lungo la dorsale medio-atlantica, altrimenti ininterrottamente subacquea. L’amorevole cura per ciò che è piccolo significa che anche i bambini hanno un trattamento speciale: si sente subito, arrivando in Islanda, l’intelligente attenzione per l’infanzia. E anche se questo non voleva essere un articolo sui miei primi entusiasti contatti con la letteratura islandese, non posso non consigliarvi la leggerezza svagata e toccante di Auður Ava Ólafsdóttir, che ho scoperto leggendo La donna è un’isola e Il rosso vivo del rabarbaro, dove sentiamo chiaramente come la diversità venga a liberarci dalla gabbia delle convenzioni, a schiuderci al mistero di una remota dolcezza: qui incontriamo rispettivamente Tumi, il bambino muto e quasi completamente sordo che accompagna la protagonista nel suo avventuroso viaggio verso i fiordi orientali, e Agustína, l’adolescente sulle stampelle, genio della matematica e capace di stupire col suo canto meraviglioso, cresciuta da un’amica della nonna in un paesino dell’est dell’isola, che riceve lettere strampalate e affettuose dalla mamma, ornitologa sempre in giro per le terre più selvagge del mondo, e messaggi nella bottiglia dal padre, studioso di balene che Agustína non ha mai conosciuto.
La sensibilità per l’infanzia qui non ha niente a che vedere con un’iperprotezione ansiogena: ai bambini si crea il contesto giusto per svilupparsi in libertà, nella scoperta, nell’avventura, nella natura, nello stimolo, nel movimento. E li si alleva nel contatto e nella pienezza. Osservavo rapita Anika, la figlia minore di Rósa, la mia amica di Reykjavík: una Pippi Calzelunghe – è identica – bionda e senza trecce, la osservavo andarsene coi suoi amici in giro per il quartiere, selvatica e gioiosa, sempre indaffarata in qualche operazione creativa, attorno alla sua bici, parcheggiata nel prato accanto a casa, ai pattini, pronta per la campestre cittadina, usciva di casa di corsa quando gli amichetti passavano a chiamarla dandole semplicemente una voce dalla via, rientrava dal cancelletto sul retro per rinforcare le bici e partire alla volta del boschetto fra la scuola e il campo sportivo. Non c’è soluzione di continuità fra fuori e dentro, fra casa mia e casa tua. La voce di Anika era così particolare che sembrava parlarti da un mondo arcaico, come se, dentro la freschezza di quel volto sbarazzino, portasse saggezze secolari e uno spirito indomito.
Qui le bambine riecheggiano di voce intatta. Suono increspato di goccia al naso. Dolcezza antica remota efficacia. Sguardo d'altalena a perdifiato sul viottolo. Persuaso. Qui lo sanno che ai bambini non c’è nulla da aggiungere e alle bambine non c’è nulla da togliere.
Un viaggio è quel luogo da cui torna un’altra persona