A scuola: il “futuro alle spalle”
Credo che l’atteggiamento di chi sa ascoltare e valorizzare l’altra persona, senza pretendere di sopraffarla o di svilirla, abbia ormai un valore politico. Il posizionarsi di un pensiero che apprezza, sul quale avevo ascoltato interessanti riflessioni di Roberta De Monticelli anni fa al festival della filosofia di Modena, mi risuona oggi come ancora più prezioso, perché scarta i nostri tempi insofferenti, frettolosi e arroganti. In ambito filosofico questo atteggiamento nasce come alternativa al pensiero binario, sprezzante ed escludente, delineando la praticabilità di un pensiero chiasmico, coraggiosamente articolato e sospeso nelle sue contraddizioni che se sono irrisolte un motivo ci sarà.
Questa postura mentale ha un forte valore politico in quanto facilita l’apertura, ed ecologico perché depreca lo spreco. Merita di essere messa in luce perché la tendenza che prevale è quella opposta. Lo vediamo – per fare un esempio da un ambiente che mi è familiare – nel mondo della scuola: oltre a essere sottoposta a continue osservazioni da parte di persone che ormai le sono estranee e si basano sulla loro più o meno lontana esperienza di studenti o su una serie di luoghi comuni che si propagano con la noncuranza dell’inerzia, la scuola conosce l'”umano troppo umano” costume del “critica chi ti ha preceduto” e così la norma è sentire accademici che si lamentano dello stato della scuola italiana (in generale, perché molti ormai nemmeno sanno com’è strutturata), docenti delle superiori prendersela con quelli delle medie, questi ultimi chiedersi “ma cosa avranno fatto le maestre?” e così via, in un infinito gioco del rimpallo, sbolognando responsabilità senza farsi le domande giuste. Addirittura una maestra di mia figlia, alla prima riunione della scuola dell’infanzia, si lamentò della scarsa scolarizzazione della nuova classe tutta composta da bambini di tre anni, chiedendosi esasperata “cosa mai avessero fatto al nido”!
Nel 2008, all’asilo nido dove le mie figlie avevano trascorso, sommate insieme, cinque anni, lasciai questo breve scritto. Lo ricopio tale e quale, come un documento di chi eravamo. L’idea del futuro alle spalle viene dal titolo di un’opera di Hannah Arendt, titolo già di per sé così attuale. Qua si capirà forse meglio perché ho tanto apprezzato il percorso che abbiamo fatto quest’anno, all’interno della campagna nazionale di Saltamuri, facendo lavorare alcune nostre classi delle medie con una sezione della scuola dell’infanzia, nostra dirimpettaia.
“Quando non hai dei bimbi non ci fai quasi caso a questi sprazzi colorati che si insinuano fra le case della città. Sono puntini allegri e vocianti che scivolano sulle tue giornate frettolose senza che tu te ne renda neanche conto. Poi arriva il giorno che ci entri tu, con il tuo di bimbo: a noi è capitato la prima volta nell’aprile del 2003 – nostra figlia più grande aveva cinque mesi – quando abbiamo fatto la visita guidata per scegliere in quale asilo iscriverla. Il suo papà la teneva stretta nel marsupio come se non volesse lasciarla andare mai: ci sembrava impossibile che dopo qualche mese sarebbe rimasta lì senza nessuno di noi, avrebbe cominciato a vivere luoghi e persone senza filtrarli attraverso di me, dopo la simbiosi totale dei primi mesi. Eppure al nido mi sono anche sentita subito a mio agio, come se si parlasse una lingua familiare, conosciuta da tanto tanto tempo: la lingua assidua, silenziosa e determinante della cura. La cura che non fa notizia, se non quando viene negata. Che costruisce un futuro più sano senza tanto chiasso inutile, attraverso i minuziosi rituali di un quotidiano che quando si sfalda ci fa sentire perduti ma che diamo per scontato quando tutto scorre liscio. Sono distratta ma so che gli asili nidi hanno dei difetti, che le strutture richiedono interventi di manutenzione, che le amministrazioni vogliono “eliminare gli sprechi” e che capita lo facciano a scapito della qualità dei servizi, so che non tutte le educatrici sono uguali, non tutte sono così brave come quelle che abbiamo conosciuto noi; eppure la sensazione che mi rimane, a pelle, dopo cinque anni trascorsi al nido, è quella di una profonda gratitudine: gratitudine per avermi fatto andare a lavorare serena, nella certezza che le mie bimbe erano amate e accudite e stavano crescendo con persone appassionate, desiderose di dare e sperimentare le cose più belle. Credo che la scuola, e l’intera società italiana, dovrebbe imparare a cercare il futuro alle proprie spalle, come ha detto qualcuno: a volgere gli occhi sulle scuole che precedono l’obbligo e prendere esempio per creare ambienti densi di stimoli e di affetti, a cercare la collaborazione e il rapporto con le famiglie, con gli adulti di riferimento, a tornare (anche) alla manualità e alla comunicazione corporea. Il nido è stato come una bella scoperta e insieme una conferma che veniva da lontano, molto lontano nel tempo.”