1. Violeta Parra. Lo scandalo dell’eccedenza

Sento sempre più persone che cercano di ripararsi dal brutto che dilaga senza chiudersi al mondo, ma vivendo in cerca e ritagliandosi luminosi angoli di resistenza. La volgarità, mancanza d’amore, incombe, pronta a fagocitarci nei suoi subdoli automatismi, ma c’è chi continua a risponderle coltivando memoria e umanità, percorrendo lunghi o brevi cammini all’insegna dell’incontro: al di fuori degli spazi eterodiretti si vanno cucendo comunità differenti o campi di appartenenza dove ci è dato riconoscere la nostra risonanza più profonda. Pian piano ritroviamo la parola perduta, nella forma che ci è più congeniale e ci schiudiamo a quello che Violeta chiamava “il miracolo del contatto”. Dalla prima volta che ho conosciuto Sofie della Vanth, mi è rimasta impressa una sua definizione secondo cui il patriarcato neoliberista è un sistema fondato sulla disconnessione, sulla perdita del legame, sull’incapacità di vedere le corrispondenze. È la mortificazione del contatto che ci precipita in quella sensazione di perenne scarsità che genera le brame voraci del capitalismo: la separazione, la connessione recisa. Contatto è il contrario di tutto questo: è “la condizione di lasciarsi toccare e di toccare a nostra volta. La premessa del contatto è il mostrarsi con tutto ciò che è, con gli aspetti che consideriamo brutti, con le impossibilità, con lo splendore, la genialità, l’irripetibile diversità e bellezza unica, al di là dei giudizi” (1)

Violeta, “aspra e sincera”. Radicata nella terra e controcorrente – o, meglio, onestamente aderente al suo personale flusso – in un’epoca in cui le donne che non vivevano sottomesse erano rarissime, in Sudamerica e non solo. Il suo innato senso della giustizia la spingeva a contestare: non si indignava passiva, Violeta faceva, inarrestabile. “Chitarra lavoratrice, dal profumo di primavera”, come le diceva Victor Jara in Manifiesto la canzone dove il cantautore esplicita la sua poetica che è poi quella della Nueva Canción Chilena che in Violeta trovò  la propria coraggiosa iniziatrice. “Viola vulcanica”, uno dei tanti appellativi che le rivolge il fratello maggiore, Nicanor, in quel poema d’amore struggente e celebrazione della vita che è la Difesa di Violeta Parra, scritta dopo la morte della sorella.

Violeta e Angel Parra

“Con mia mamma c’era sempre qualcosa da fare: firmare una pratica, mandare un vaglia, mandare un telegramma, scrivere una poesia, sbattere i materassi, pulire la casa, aprire le finestre… c’era una gran attività”, così la ricorda il figlio Ángel in Viola Chilensis. E il quotidiano non aveva nulla di ordinario con lei, permeato com’era di arte e di accuratezza, bellezza e premura. Colori  suoni parole. Nulla di ermetico, ma piuttosto la volontà di svelarsi al mondo, carica di dolore e di un’arcaica innocenza. Manipolare la terra e reinventarla, per raccontare se stessa, il suo paese dalla parte dei dimenticati e l’identità sudamericana che rimaneva fuori dai circuiti accademici: “L’ondata di tristezza è già molto lontana. Quando arriva il lavoro, arriva anche l’allegria. Che meraviglia il lavoro! La forza mi cresce e la vita mi sembra più bella”, scrive all’amato Gilbert Favre in una lettera raccolta dalla figlia Isabel nel libro Mayor de Violeta Parra (pp. 125-126).

Senza maschere in una società maschilista e conservatrice, Violeta viveva esposta: vulnerabile lottatrice, con buona pace di chi vuole incapsulare in un’unica definizione una donna-pianeta, luce e ombra, sovraesposizione e mistero. “La única violeta que nació de una parra”, così ha detto Daniel Viglietti nel concerto che ha fatto a Barcellona venerdì scorso, il 7 aprile, durante il festival Barnsants quest’anno dedicato proprio al centenario della Viola: “l’unica violetta nata da una vite rampicante”. Un accostamento che sa di “verde selva”, con già dentro la fragilità meravigliosa delle tinte più intense e la ricerca forsennata della luce, l’orgoglio senza padroni della bellezza selvatica e il bisogno degli altri.

–          Se dovesse scegliere fra tutte le sue arti – poesia, musica, pittura, tessitura – quale sceglierebbe? –, le chiede una giornalista durante un’intervista a Ginevra nel 1964. Violeta si ferma per un attimo di dipingere e con voce dolce e ferma le risponde: “Sceglierei di restare con la gente. È la gente che mi fa fare tutte queste cose”

Madre affettuosa e madre che abbandonava, come la descrive, in un bel documentario alieno da inutili celebrazioni agiografiche, la sua biografa Mónica Echevarría, che le attribuisce anche grandi responsabilità nella fine della piccola Rosita Clara, la figlia più piccola morta di pochi mesi nel 1954, che Violeta aveva in pratica affidato alle cure del secondogenito Ángel, di soli undici anni, dovendo partire per l’Europa.

Javiera

Sempre qui, ascoltiamo la nipote Javiera parlarne con sensibilità e acume, pur non avendola conosciuta personalmente: “Sento che lei era un po’ come Giovanna D’Arco: le canzoni le arrivavano, le arrivavano le arpilleras, le arrivavano le sculture e lei sentiva che doveva farlo, doveva lasciare i suoi figli piccoli, negli anni Sessanta, per andarsene al festival della canzone in Polonia. Erano cose difficili, soprattutto con zero soldi, madre, in un mondo machista. Però questo sentire era più forte di tutto: dare ciò che aveva da dare.”

Qui sta lo scandalo dell’eccedenza, che aiuta a spiegare le rimozioni, gli equivoci e le riduzioni che la Viola nazionale ha dovuto patire dopo il suo suicidio, nel 1967. E che ancora serpeggiano in chi vuole a tutti i costi spiegarla, nella pretesa di averla compresa. Violeta sfugge, perché eccede. Ed eccede per via dell’ingorgo, sbocco mancato del suo io ricco e profondo in un contesto angusto. L’intoppo.

Questa, appunto, l’etimologia di scandalo: ostacolo, inciampo, impedimento. Intoppo.

Il suo genio stava nel mettere la sua unicità al servizio del popolo cileno, sfruttato e senza voce, per farne racconto universale. Immersa nella connessione profonda: brodo ancestrale di lancinanti offese mai vendicate e di corpi allacciati nell’estasi del godimento.

“Praticamente davanti a tutto il vicinato, e alla luce dell’azzurro più azzurro dell’azzurro, ho ricevuto da lui un bacio. Non di uomo: di leone famelico era quel bacio […] Mi fece male quel bacio e mi fecero male tutti quelli che ho ricevuto dopo, che mi hanno portata a letto tre volte, per approfondire la conoscenza di quel leone” 

La tragedia sta nell’evidenza dell’inconciliabilità che a un certo punto la sopraffece: il collasso del sogno che si alimentava nella sua attività incessante, nel suo andare. La sua Carpa troppo vuota delle persone che le restituivano quella trama d’amore in cui solo poteva alimentare la sua arte.

“Santito, mi sono fatta 1200 chilometri in un giorno per farti una sorpresa. E ora me ne torno in Cile per restarci solo pochi giorni. Sono fatta così. I fatti parlano più chiaro delle parole.” (2)

Gracias a la vida que me ha dado tanto / Me ha dado la marcha de mis pies cansados

I tuoi piedi stanchi per aver camminato a lungo, sì, Violeta: hai percorso le campagne del tuo paese a raccoglier canti, come fiori. Hai salvato così un patrimonio che sarebbe caduto nell’oblio, vittima dell’intellettualismo imperialista e della mania di discriminare che porta a rimuovere l’arte popolare dalla “cultura che conta”: scarpinavi fino a paesini sperduti a cercare cantrici e cantori per ascoltare le loro canzoni, registrarle e trascriverle.

È il fratello Nicanor, presenza decisiva nella sua formazione, a convincerla a partire per le campagne. Dei nove fratelli minori, tutti musicanti fin da piccoli, figli di una sarta, che non sapeva scrivere ma sapeva cantare, e di un maestro di musica, Nicanor aveva intravisto ben presto nella terzogenita qualcosa di eccezionale: l’aveva fatta andare da lui a Santiago, quando lei aveva solo 15 anni. Violeta era partita, con la sua chitarra. Lì aveva frequentato la scuola, fino a 17 anni, e conosciuto amici intellettuali a casa del fratello, che si accingeva a diventare una delle voci più significative della poesia cilena.

Sono una cilena

che non è mai andata a scuola

che preferiva il giardino

per afferrare le farfalle.

 

Per strada cantavo

come un povero uccello perduto […]

 

È mio fratello che mi ha fatto

conoscere la musica

è mio fratello che mi ha detto

bisogna lavorare l’argilla.

Nicanor Parra

Scriveva in Écoute moi, petit, una poesia in francese, scritta quando era a Parigi.

Come aveva fatto fin da bambina coi suoi fratelli, nella regione natale del Bío Bío, per guadagnare qualche spicciolo in modo da aiutare la madre, a Santiago Violeta si esibiva nei bar, facendo musica popolare per lo più importata dalla Spagna. Quella musica però non le bastava, non era la sua, non era lei. E allora ascolta il consiglio di Nicanor e parte, alla ricerca della tradizione più vera: di villaggio in villaggio, con uno di quegli enormi vecchi registratori, pesantissimi. I contadini la accolgono offrendole le empanadas, la cazuela, le sopaipillas, con “quell’amore che esiste tra la gente povera”.

Anche Miguel Letelier, musicista e compositore cileno, se la ricorda in versione recopiladora, quando arrivava all’università con il suo registratore di dieci chili e il suo quaderno di appunti  per portare all’Instituto de Investigación folclorica i brani raccolti. Quelle canzoni Violeta iniziò a farle passare anche per radio. Una rivoluzione stava accadendo. Un giorno, racconta Miguel, arrivando in università la sentì suonare con attorno un gruppo di una quindicina di persone e rimase folgorato. “È la mia ultima composizione”, gli disse Violeta, El gavilán. “Lamore che distrugge quasi sempre e non sempre costruisce”. Solo chitarra e voce, non c’era una parte scritta. “Devi registrarla”, le disse Miguel. Finì che lo fece lui: si chiusero in casa per una settimana, lei cantava e lui scriveva – difficilissimo perché ogni volta, racconta, la cantava diversa, cambiando una nota di qua, una di là. Istintivamente Violeta usciva dalle armonie tipiche del folklore, introducendo una nota estranea, che produceva un effetto di tensione, di malessere: nel Gavilán usava armonie di quarta, un intervallo dissonante, per simboleggiare la bugia del falco-amante. Blocchi sonori che si succedono. Intuizioni musicali che si ritrovano in Stravinsky e Debussy, compositori che lei non aveva mai sentito, portandola ben oltre il folklore, che tuttavia mai tradisce. E tutto questo le era arrivato smarcandosi dalle maglie severe dell’accademia. Quanta sordità? Quante critiche cieche a quella voce così dolce e tagliente da lasciar intravedere le proprie cartilagini?

“Io credo che Violeta Parra abbia il dono, il genio poetico, e abbia la freschezza, la spontaneità, la sincerità, la naturalezza della grande poesia che tiene radici fortissime e veraci nella terra e in una tradizione orale: era un’artigiana della lingua e al tempo stesso aveva la libertà per afferrare questa tradizione e darle lei stessa un sigillo assolutamente personale. È la perfetta sintesi di una poetessa geniale, unica, individuale, ma profondamente radicata in una tradizione” (3)

Intensità. Dove arriva Violeta l’atmosfera si raddensa, non esistono possibilità di rarefazione e anche l’ironia diventa sarcasmo. Eppure sa anche essere aria.

Ancora nell’intervista europea, frammento prezioso per come ci sfiora delicatamente con una potenza perdurante, Violeta sta facendo una maschera con dei pezzi di cartone, ha un vestito campestre, con delle pezze colorate e le maniche a sbuffo, glielo ha confezionato la mamma con degli scampoli di tenda che conservava da quando era piccola, perché non avevano mai soldi.  Si rivolge all’intervistatrice:

–          Per esempio, per fare questa (…) io penso a te. Ti guardo un po’, senza che tu mi veda, per non disturbarti… Mi piace lavorare a memoria.

–          E come fa quando vede una persona per poco tempo? Riesce a captarla?

–          Quando sento qualcuno che è gentile, sensibile… non riesco a rimanermene tranquilla: devo fare qualcosa per… vedi, non riesco a spiegarlo…

–          Semplicemente fare. Le emozioni fluiscono nelle mani.

–          Sì, proprio questo.

 

“Contra la guerra”, arpillera de Violeta

Poi Violeta spiega la sua arpillera Contra la guerra (4): sono i personaggi che amano la pace. La prima è lei stessa, vestita di viola, come il suo nome, poi un amico argentino, un’amica cilena, un’india cilena. I fiori di ogni personaggio sono la sua anima, i fucili la morte.

“Tutti i contadini in Cile vivono poveri e io non posso restarmene indifferente, sono arrabbiata per questa situazione ed è per questo che ho fatto quest’opera che si chiama La rivolta dei contadini”.

 L’elfa si fa strega ispirata, quando l’amica con cui sta parlando mentre dipinge, le chiede se vuole mangiare qualcosa. “Non ho fame. Mi sono già nutrita con la tua anima”.

Ci nutriamo dell’anima di donne e uomini che alimentano il nostro naturale fulgore e ci aiutano a immetterci nell’infinito flusso. Da alcuni anni certe donne mi sono venute incontro, sul filo del canto, e io le ho accolte: Lhasa de Sela, Camille Claudel, Violeta. Altre le sento vicine, forse in arrivo. Questa permeabilità è il timido corollario del riattivarsi delle connessioni che violentemente, per millenni, sono state recise. Non esiste proprietà privata nell’arte, che è libera circolazione di un amore totale: siamo cassa di risonanza di un antico racconto che aspetta di essere riportato alla luce e magari ascoltato da chi non ha nessuna intenzione di cedere.    [continua]

 

(1) Sofie della Vanth, Il conflitto fra le donne – Esplorazione di un tabù sulla traccia del suo dono, Macerata, Simple, 2013, p. 135.

(2) Isabel Parra, Libro mayor de Violeta Parra, p. 129.

(3)  Cristián Warken, scrittore, intervistato in Viola chilensis, 9° minuto circa.

(4) Qui nell’interpretazione che ne ha dato pochi giorni fa Jorge Montealegre: Il messaggio pacifista di Violeta 50 anni dopo