Cosa vuol dire essere donna giovane e bionda nel mondo del lavoro. Esperienze vissute.
La settimana scorsa sono andata alla presentazione di un libro su Adriana Cavarero e Judith Butler e una dei due curatori, Olivia Guaraldo, che è ricercatrice di filosofia politica all’università di Verona, mi ha fatto riflettere su un aspetto della questione della mercificazione del femminile che avevo lasciato in ombra, un po’ per istintivo disinteresse nei confronti di quelle donne che fanno leva esclusivamente sui propri attributi fisici per relazionarsi agli altri, per cui di solito sono tutte protese verso un maschile da sedurre e a cui assoggettarsi compiacenti, un po’ forse perché inconsapevolmente mi sono fatta condizionare dalle interpretazioni egemoni, anche quelle più illuminate, almeno in apparenza, che di rado hanno messo in discussione in maniera seria e rigorosa le gravissime logiche sessiste sottese alle pratiche sessuali che imbevono la gestione del potere nelle pratiche di molti nostri governanti, Berlusconi per primo, e uomini politici in genere.
Logiche sessiste che queste donne sono le prime a fomentare, facendo dilagare un equivoco enorme, che trasforma conquiste importanti delle lotte per l’emancipazione femminile, come la libera gestione del proprio corpo, una certa dose di disinibizione e di curiosità spregiudicata, in strumenti per perpetrare un sistema in cui il vero potere rimane comunque nelle mani degli uomini mentre le donne sono degradate, ancora una volta, a mero strumento di piacere o al massimo a statuine sballonzolanti a scopo puramente decorativo. Corpi che sembrano padroni del proprio destino e che invece sono, ancora una volta, corpi docili assoggettati a un potere che venerano e da cui non mancano di dipendere, come quelli che ci mostra Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi nel loro documentario, Il corpo delle donne, che verrà presentato a Bologna oggi, 4 febbraio. L’analisi di Olivia Guaraldo sulla preoccupante situazione in cui versano (di nuovo) le relazioni di genere nel nostro paese, mi ha fatto pensare che, in effetti, a queste donne non è stata data una voce, sono state presentate con grande naturalezza come giovani corpi senza mente e senza storia, se non sporadicamente, e più a fini scandalistici e mirati a innalzare l’audience che per capire il loro punto di vista che, invece, sarebbe utilissimo stare ad ascoltare, se non altro per capire gli errori commessi nei percorsi d’emancipazione o, almeno, nelle loro derive. Come scriveva pontitibetani presentandosi nel nostro social network, non è il corpo provocante che ci dà noia, non è la bellezza delle forme ma la riduzione delle persone a involucri vuoti. E la cito per intero, pontitibetani, perché questo pezzo vale la pena di sottolinearlo cento volte:
“credo che la criticità del modello velina sia insito nell’essere un modello femminile che espone solo la sua forma, confezionata a bella posta per esser solo confezione, per esser messaggio di donna oggetto da vedere e/o oggetto solamente sessuato, modello dal quale la dimensione del sapere è annullata, negata.
In quei corpi non c’è sapere e non c’è cultura, sono immagini ed icone. Allora ciò che possiamo recuperare non sono le lauree in sé ma i saperi, che in quanto donne abbiamo maturato, e che sappiamo/vogliamo metter in condivisione, perché siano trasmissibili e quindi usabili da altre e da altri, perché permettano a noi stesse, ai nostri compagni di strada uomini, ai figli che abbiamo ed avremo di vivere in modo più complesso ma meno svuotato di significati ..
(n.b. non è il corpo sessuato che mi crea turbamento, ma il suo essere azzerato e semplificato ad una unica funzione ….)”
Tutto questo prolississimo pippone per introdurvi la testimonianza di oggi (scusa, la coniglia, che mi son fatta prendere un po’ la mano, ma son tutte cose che avevo lì sul gozzo e il tuo post mi ha dato il la, cara), di una giovane donna bionda che sta cercando di capire cosa fare dopo essersi laureata, qualche mese fa, e si trova a lavorare in un mondo di uomini nutriti dagli stereotipi di cui sopra, in base ai quali, soltanto, pare sappiano concepire il femminile. Ma lei, invece, non ha proprio nessuna voglia di star lì a fare il soprammobile o la servetta dei boss. Stiamo ad ascoltarla.
Quando hai 26 anni ed entri a lavorare in un ufficio in veste di segretaria del direttore, tutti, come prima cosa, pensano che ti abbia preso perché sei:
1 – donna
2 – giovane
3 – bionda
Questo assioma mi è diventato sin da subito chiarissimo, sin da quando, appena assunta, incontrai una conoscente che dopo che le dissi che avevo ottenuto il posto tanto agognato mi disse ‘complimenti! non devi certo spiegarmi com’è che hai fatto ad ottenere il lavoro!’ lanciando un occhiata allusiva alle mie gambe, in quel momento fasciate da una gonna.
Io mi sentii quasi defraudata di qualcosa, ma non ero stata scelta perché ho una laurea in comunicazione?
Ma decisi di lasciar perdere e catalogare la pessima uscita della conoscente come un modo poco carino di esprimersi.
Col tempo mi resi conto che dovevo dimostrare di avere non solo una laurea, ma persino un cervello, cosa per niente scontata!
Volete un esempio?
Eccovelo…
Riunione con tre responsabili. Rigorosamente maschi. Tra i 38 e i 55 anni. E io. ventiseienne neo laureata dal gran desiderio di imparare, fare bene e farmi valere.
supercapo:…quindi vorremo che lei razionalizzi questi processi tramite dei diagrammi di flusso.
la coniglia: Va bene, ho capito
vicecapo1:Quindi devi fare il diagramma col disegnino…li sai fare, vero?
la coniglia: devo ripassarli ma ho ampiamente compreso cosa mi state chiedendo
vicecapo2: quello che ci serve è una mappatura dei processi e quindi lei ci deve fare i diagrammi….
la coniglia: Mi ripeterò, ma ho capito perfettamente…
Ma per fortuna ho anche esempi di un uomo che ha visto e vede in me ben altro che un paio di gambe. E la cosa buffa è che per capirlo sono dovuta incappare nella peggior specie di maschio: il maschilista con gli stereotipi della donna piantati in fronte come chiodi.
Entro nell’ufficio del mio capo e trovo quattro sconosciuti seduti al tavolo delle riunioni. Mi vien su una faccia perplessa (come siete arrivati qui senza invito?Perché nessuno vi ha annunciato?) e finalmente l’unica donna si degna di fornirmi la spiegazione che aspettavo. ‘Attendiamo il suo capo, il commesso ci ha invitato ad accomodarci’. Sorrido, annuisco e vado a lavorare al pc fino a quando mister furbizia, alias uno degli uomini presenti nella stanza, se ne esce con la seguente frase:
eh signorina adesso che è arrivata pensavo che ci avrebbe portato uno spumantino leggero e fresco…sa…il caldo…
Mi guarda con una faccia che mi pare un pò da schiaffi ma, mi dico, sono io prevenuta, vuole solo fare una battuta sul caldo ed effettivamente c’è caldo…
Perciò faccio finta di non aver colto la sottile (sottile?) insinuazione insita nelle sue parole e col sorriso sulle labbra gli rispondo che purtroppo spumante non ce n’è e si dovrà accontentare dell’aria condizionata per rinfrescarsi.
Riprendo a lavorare ma…no, il signorino non è contento. Il suo mica era uno scherzo di pessimo gusto, no, era proprio una richiesta.
No, sa, perché fa veramente caldo, non ci può portare una bottiglia d’acqua con dei bicchieri?
No, io adesso ti disintegro. Per chi mi hai preso? Per la donna delle commissioni? Ma non esiste proprio!
Guardi mi dispiace ma non sono l’addetta al servizio bar, se vuole c’è una macchinetta del caffè nel corridoio ma di più non posso fare
sorrido lanciandogli uno sguardo gelido. Speriamo abbia capito. E invece no, il concetto non è chiaro al punto giusto.
Appena entra il mio capo, mister finezza gli dice con tono lamentoso e abbastanza arrogante
Mi scusi ma noi stiamo morendo di sete e la signorina non ci ha nemmeno portato da bere…
E qui il mio capo mostra di esser un vero uomo pensante nonché un vero capo:
La signorina è qui in veste di esperta nella comunicazione, non come cameriera.
Io sorrido tra me e me, contenta che, date le circostanze e l’impossibilità di replicare ci abbia pensato il mio capo a fargli capire come stanno le cose.
Ah, ma guardi, anche io sono esperto in comunicazione! Tenga signorina, il mio biglietto da visita!
Col sorriso sulle labbra strappo dalle mani di mister arroganza 2009 il suo biglietto da visita e mi soffermo a leggere nome cognome e qualifica.
Questo ne sa di comunicazione come io di motori…
Da questi episodi l’assioma di prima è stato modificato in
Com’è difficile lavorare ed essere (nell’ordine esatto):
1 – donna
2 – giovane
3 – bionda
Ma quale pippone Silvia, hai scritto cose sacrosante e verissime! Sono molto orgogliosa che siano il prologo alla mia testimonianza 🙂
Dimenticavo, grazie per la pubblicazione 🙂
perdonatemi la riflessione in controtendenza, ma io credo sia necessaria per andare avanti agli stereotipi e a certi stereotipi.
nella storia che racconti e ci racconta la coniglia, c’è certo il non- pensiero maschilista, banale e banalizzante, ancorato agli stereotipi ma credo che la riflessione di chiusura potrebbe anche essere stata così:
com’è difficile entrare in una organizzazione
essere una 46 enne e quindi non solo giovane (forse mi avrebbero trattata come una assistente, perchè donna, o perchè vestita in gonna, perchè nuova del lavoro, perchè non mi sono seduta in una certa posizione, perchè trasmettevo la sensazione di essere una new entry)
o un giovane precario (anche ad un maschio precario o stagista chiederebbero lavori da sguattero? credo di si?)
insomma mi sembra che andrebbe sempre pensata la complessità che sta dietro ad una reazione, per attivare una reazione più funzionale.
io temo che il campo si restringa alla discriminazione sessuale ma nel lavoro non sempre le cose sono così lineari, sgradevoli o semplici …
(ecco forse lo stereotipo più consistente e perdurante lo colgo nel bionda …)
il mondo del lavoro non solo viaggia per stereotipi, ma anche per forme organizzative che sembrano rigettare il nuovo che entra, a prescindere, per culture quasi “nonnistiche”, quasi da caserma, entri e devi dimostrare il tuo saper fare ed essere … insomma mostrare le competenze professionali.
e lo vedo ancora, a 46 anni e una ruolo di consulente/formatrice e una certa faccia tosta maturata con gli anni e la competenza, quando mi trovo ad incontrare organizzazioni che mi trattano come l’ultima deficiente sulla faccia della terra, e non perchè sia donna … ma perchè mi testano, testano la mia resilienza ai loro stress, la mia capacità di dialogo con il loro stile organizzativo.
a volte mi trovo persone più giovani che si vivono come se loro fossero più esperte di me. non sempre è vero, ma alle volte sono più competenti di me nel viver in quel luogo di lavoro … e mi chiedono in che posizione mi metto.
insomma questo pippotto (scusatemi e scusami) per dire che ogni volta ci compete, donne pensanti o anche uomini pensanti, chiederci che parte dello stereotipo ci stanno appiccicando addosso.
al lavoro, e non solo.
ma vederlo ogni volta nella figura sfondo complessa in cui ci troviamo, e a quel punto giocarsi le carte.
è assai probabile che la storia di la coniglia parli proprio di quella banalizzazione della donna e della sua riduzione ad eterna segretaria, ma non rigetterei sempre invece di farmi più domande e osservare bene il contesto nel suo insieme.
:-))
Non la definirei una riflessione in controtendenza, ma semplicemente un approfondimento, pontitibetani. Credo che la nostra sfida si giochi proprio sulla capacità di accogliere la complessità pur continuando a contrapporci a modelli che stanno riprendendo prepotentemente il sopravvento e che, loro!, non vanno molto per il sottile. Probabilmente la scarsa credibilità che oggi ha, per tante donne anche attente e preparate su questi temi, il concetto di “femminismo” (quasi una parolaccia come diceva Agnese in un bell’intervento dal pubblico durante l’incontro con Olivia Guaraldo che cito qui sopra) è che la versione che è passata, molto molto semplicistica ma qualcosa di vero secondo me c’è, è quella di un movimento estremista, poco attento alle sfumature, facilmente caricaturabile (se esiste la parola, ma si capisce quel che vuol dire). Quindi perseguire l’obiettivo di continuare a riflettere, aprire squarci di dubbio, affrontare l’indecidibilità davanti a questioni complicate non per eluderle ma per coglierle in maniera più vera, tutto questo ben venga. Ma continuando a mantenere dritte le antenne e a farci sentire, secondo me. Non ci sono due strade contrapposte e basta. Tertium datur, finalmente, e anche quartum, quintum ecc. 😉
pontitibetani, il tuo intervento è molto interessante e hai perfettamente ragione, bisogna capire che etichetta ci stanno attaccando e comprendere anche tutto l’insieme.
Io ti parlo della mia esperienza personale e non mi permetto di generalizzare perchè non mi sento in grado di farlo.
Se ho riportato questi esempi e non altri che ho vissuto è perchè proprio in questi ho percepito che chi mi stava di fronte mi stava giudicando ed etichettando per ciò che ho scritto: giovane (quindi inesperta) donna (quindi più facilmente soverchiabile) e bionda (quindi in qualche modo più ‘appariscente’ o più desiderosa di apparire).
Mi è capitato di venir messa sotto pressione per capire quanto potevo reggere, ma in quelle circostanze non ho sentito la carica sessista che invece ho percepito in ciò che ho raccontato, specie nell’ultimo episodio.
Volevo giusto puntualizzare questo particolare perchè troppo spesso mi capita di vedere donne che vedono attacchi ‘sessisti’ anche dove non ce ne sono e mi dispiacerebbe che tu pensassi che anche io mi son lasciata trascinare dalla foga del momento. 🙂
allora, e adesso pure io devo fare la controtendenTE 🙂 e pedante pure. Il primo esempio mi trova solidale, anche se non so se lo ascriverei alla bionditudine, perche’ come diceva pontitibetani la variabile ‘new entry’ gioca molto. Sul secondo esempio sono molto meno convinta. Noi tutti vagoliamo per il mondo ragionando per schemi che senno’ il nostro cervello impazzirebbe ad elaborare ogni possibilita’ e non ci muoveremmo di un dito. Tecnicamente si dice che ragioniamo per “circoscrizione”. Se entro in un ristorante e trovo un tipo sulla porta in giacca bianca e cravattino che sta sull’attenti fra tutte le infinite possibilita’ mi “circoscrivo” a pensare che sia il maitre, e mi avvicino per avere un tavolo. Se il tizio quando mi vede arrivare cambia rotta e abbraccia una signora appena entrata, devo rivedere il mio assunto e pensare che sia un cliente in attesa della compagna per la cena, e che la giacca bianca era soltanto un suo vezzo.
Nel tuo caso, se devo attenermi a quanto hai scritto: sono in un ufficio in attesa di parlare con qualcuno. Vedo una persona entrare con sicurezza – ergo assumo sia del posto. Vedo una faccia perplessa – assumo non si aspettasse di vedere gente. Alla conferma che ‘siamo aspettando il tuo capo’ la persona non nega che ‘sia il mio capo’ ma annuisce e va a sedersi, senza parlare, al PC. Per circoscrizione, dato il mutismo e l’atteggiamento, anch’io avrei pensato alla segretaria. Se invece la persona prende la parola e inizia a chiedere di piu’ sul meeting o fa domande diu merito, allora, come nel caso della giacca bianca, posso cambiare assunzione. Se non cambio assunzione, se sono in questo ‘frame of mind’ le risposte alle richieste da bere che dici sopra per forza sono percepite con una certa ‘dissonanza’.
Insomma, al di la’ dell’episodio, mi domando quante volte siamo noi per prime che inchiodiamo al muro chi ci sta davanti senza remissione di peccato, che ci facciamo infilare nello stereotipo prima ancora di dare a chi sta davanti una possibilita’.
Ecco, l’ho detto.
Ci tengo un’altra volta a precisare perchè probabilmente in ciò cheho scritto non traspare chiaramente: io SONO la segretaria oltre che esser stata assunta per la mia laurea in comunicazione e quindi il mio comportamento era consono al mio ruolo. Il problema è che io non ritengo che una segretaria debba necessariamente portare da bere a degli ospiti. La segretaria che risponde al telefono mentre si lima le unghie e porta da bere non esiste più(per lo meno nel panorama della mia città) e mi dispiace anche un pò se ancora si pensa che il suo ruolo sia solo quello…
OK, allora la situazione e’ complessa, e devo dire che probabilmente ho letto il tutto inficiata nel giudizio dalla mia realta’ (vivo in inghilterra da 14 anni), non ho mai lavorato in italia e quindi non posso commentare su questo scambio di ruoli e competenze, con le qualifiche professionali che si intrecciano e si mescolano in un turbinio di emozioni 🙂 Le segretarie nel posto dove lavoro io nascono segretarie, studiano per quello (sono superqualificate nel loro settore) e portare su il caffe (per noi e per loro!) se c’e’ un meeting e’ qualcosa non credo le faccia sentire sminuite, anche perche’ alle volte lo portiamo su noi. Forse in italia il problema e’ che non importa che qualifica hai devi sempre partire da un certo gradino, e farti largo. L’idea che per arrivare a fare X devi partire da Y, dove Y non e’ parte del curriculum che ti serve e che ti sei preposta, mi e’ ancora non interamente digeribile, ma capisco che la realta’ sia questa.
… e quindi vige il classico “lei non sa chi sono io”, sembro X ma in realta’ sono Y
Secondo me Supermambanana ha colto un punto cruciale nelle dinamiche lavorative italiane. La cito: “Forse in italia il problema e’ che non importa che qualifica hai devi sempre partire da un certo gradino, e farti largo. L’idea che per arrivare a fare X devi partire da Y, dove Y non e’ parte del curriculum che ti serve e che ti sei preposta, mi e’ ancora non interamente digeribile, ma capisco che la realta’ sia questa.”
Il punto secondo me è che oltre le etichette di genere esistono anche delle antiquate etichette professionali che poco hanno a che fare con la formazione innovativa proposta dai corsi di laurea.
Il problema delle “circoscrizioni” in questi frangenti è che la sovrapposizione diventa mefitica.
Vi faccio un esempio.
Anni fa ero project manager di un’associazione culturale di industriali. Eravamo due: un maschio e una femmina. dovendo gestire tutta l’associazione facevamo di tutto, dalla contabilità alla progettazione di eventi culturali.
bon
quando c’erano le riunioni, immancabilmente, pur avendo io un cv molto più lungo del mio collega e formalmente rivestendo lo stesso ruolo, la maggioranza degli industriali (maschi) presenti chiedevano a me di procacciare caffè e brioches per tutti.
non c’era verso
un giorno – dopo essermi ingastrita parecchio per questa cosa – ho serenamente detto al mio capo: “Ma perché non andiamo insieme alla macchinetta a prendere il caffè? così possiamo proseguire il discorso là…”
Lui ci è rimasto un po’ di sale, ma poi così si è fatto e la cosa ha funzionato.
da quel momento ho inaugurato un altro modo (qualcuno ha continuato a farmi richieste “donnesche”)
cioé, a volte il confine tra circoscrizione e etichetta sessista è molto labile ma è pur vero che siamo anche tutti molto pigri e si può sempre resistere offrendo un altro punto di vista alla situazione, no?
supermambanana condivido appieno il tuo punto di vista, non importa qual’è il tuo ruolo, devi sempre e comunque fare della gavetta anche se, come nel mio caso, te la sei ampiamente fatta altrove.
Panz, condivido anche ciò che dici tu, e trovare situazioni alternative è la cosa migliore da fare, esattamente come hai fatto tu!
Grazie per tutti i vostri commenti, sono ottimi spunti per molte riflessioni 🙂
care, la questione secondo me è anche che spesso noi rifiutiamo i ruoli femminili perché pensiamo che siano degradanti…così facendo, non facciamo forse il gioco del patriarcato che continua a vedere nel femminile la segretaria/cameriera? Da una parte penso che la sfida sia appropriarci consapevolmente e criticamente delgi stereotipi che ci vengono affibbiati. (Io avrei portato lo champagne al tizio e mi sarei seduta a berlo con lui, per dire, rigiocando attivamente lo stereotipo.) Dall’altra farci valere secondo la nostra propria identità singolare, che non necessariamente deve corrispondere ad un femminile definito (donna-maschio o donna-femmina)…A me personalmente infastidisce non tanto la messa in pubblico del corpo femminile, la sua bellezza o provocatorietà, quanto la funzione accessoria che esso ha: eccitare il desiderio maschile, confermare la possibilità che gli uomini hanno di possederlo, quel corpo, fare di esso il contorno di qualsivoglia altro prodotto (macchine, lavatrici, l’umorismo sciatto e volgare di Ezio Greggio). La mia domanda è: perché le donne sono ‘modeste’? Perché pensano di valere meno dei maschi o al massimo come loro ancelle?
al di la di ciò che è successo davvero in quel momento, la storia narrata da la coniglia ci ha permesso bellissima discussione, se permettete, che ha spostato molto in la l’analisi degli stereotipi e della possibilità di esserne vittime inconsapevoli o protagoniste capaci di usarli per fare cambiare le culture istituzionali ..
io credo che al prossimo caffè che ci chiederanno o proporranno il dubbio ci verrà e anche chiederci se un manager o il super esperto non può farsi il caffè da solo con le sue manine “sante” o se ha bisogno dalla donna o dello stagista (scesi al rango di servitori di chi ha più “competenze”, anche se solo in un unico e solo campo dello scibile umano) ….
il potere deve essere eservicato solo attraverso l’umiliazione o anche la professionalità e responsabilità non sono elementi importanti??
Perché le donne sono modeste?, si/ci domanda Olivia. Mi chiedo se non sia per colpa del nostro bisogno di consenso, a cui faccio riferimento all’inizio del post successivo a questo, quello di Sonia. Il nostro bisogno di conferme credo sia legato alla nostra, di molte di noi (non siamo mica tutte uguali, lo so), propensione alle relazioni, a tenere i fili dei legami, che in sé è una cosa bella, ma con certe derive difficilmente contenibili, e il bisogno di consenso forse potrebbe essere una conseguenza di questo.
Vari anni fa, lessi una recensione della semiologa Patrizia Violi a un libro che ho amato moltissimo e che ho già citato in questo blog, “Tu che mi guardi, tu che mi racconti” di Adriana Cavarero, dove avevo trovato questa bella definizione delle amicizie tra donne come “amicizie narrative”, perché è spesso attraverso il racconto che l’altra, l’amica, fa di noi, che ci sentiamo prendere forma, acquistiamo maggiore consapevolezza della nostra identità, altrimenti pulviscolare, evanescente, così dispersa e policentrica com’è. La Violi diceva, sì, molto bello tutto questo ma bisogna stare attente, guardarsi da un’eccessiva dipendenza dallo sguardo dell’altro che può farci perdere autonomia, capacità di auto-determinazione. Ecco, la difficoltà sta nel vivere sospese fra la ricchezza del relazionarsi e la volontà di individuarsi in autonomia, indipendentemente. Questo potrebbe avere a che fare con la nostra modestia, credo.
bene.
Dopo mi leggo tutti i commenti con calma, per adesso… brava a te l’ho già detto a suo tempo.
Complimenti per la pubblicazione e complimenti alle toste persone che portano avanti questo discorso in questo mondo… ancora un mondo di uomini.
nasinasi
leggerò il libro della Cavarero, lo trovo molto interessante da ciò che dici…
che bella discussione, complimenti!!!
carissime, sono un “maschietto” e capisco benissimo le dinamiche che descrivete e raccontate, perché mi è capitato di assistere in passato a situazioni analoghe e spesso ho provato imbarazzo per le colleghe a cui capitava. Eppure notavo che a molte donne piaceva essere trattate così, ovviamente entro certi limiti. Ecco, io quelle donne non le sopportavo!
In ogni caso, per evitare lo stress derivante da queste relazioni lavorative potete trovare qualche consiglio su questo post che vi segnalo.
Buona giornata a tutte!