Piccoli grandi bilanci (Maternità e stereotipi)

Pubblico stasera un post che Flavia ha messo in rete un paio di settimane fa sul suo blog, su un tema che fa sempre molto discutere. Mi è rimasta in mente una frase che ha detto una Donna Pensante al nostro primo incontro a Bologna, il 15 febbraio scorso: “quasi tutte le donne che ho conosciuto”, diceva, “parlano della loro esperienza di madri come se dovessero dimostrare al mondo che è la migliore possibile”. Mi ha fatto pensare, non lo so mica perché.

Avevo iniziato tempo fa una specie di sfogo, annunciando che avrei preso delle posizioni.

Ora la parte più delicata del mio coming out, la più difficile da strutturare, la più facile a suscitare antipatie, è quella sui metodi e stili materni (o genitoriali, per essere politically correct).

Qui dentro infatti finiscono tutte le diatribe infinite su parto, allattamento, sonno, alimentazione, relazione mamma-bambino, stili educativi, e così via. Due – secondo me – sono i grandi mali che ci affliggono quando ci addentriamo in questo ginepraio.

1. L’abbondanza e l’abuso di dati scientifici, cioè la disponibilità di informazioni e di “pareri esperti” su qualsiasi minimo dettaglio, che porta facilmente a manipolazioni, laddove il senso di colpa è  il vero e proprio DNA delle madri. Qualsiasi cosa tu voglia fare, c’è uno studio scientifico che dice che sbagli. Qualsiasi tesi tu voglia sostenere contro un’altra, c’è uno studio scientifico che fa per te. Non è una novità che l’overload di informazioni generi paralisi decisionali. Metteteci lo stato di confusione mentale in cui ti getta un bambino, almeno il primo, e va a finire che i danni di tutte queste informazioni sono maggiori dei benefici.

In una commistione tra il senso sacro-religioso di una maternità prepotentemente fisica, simbiotica, immutabile e universale (quando basta guardare un po’ di storia e di geografia per capire che non è così sempre e dovunque), e la fede nella scienza del ventunesimo secolo, è nata una nuova specie di Inquisizione, con i suoi dogmi. I primi quindici minuti di imprinting sono essenziali nella creazione della relazione tra mamma e bambino, è scientificamente dimostrato. (Presto, presto, datemelo, non lavatelo, altrimenti non mi basterà una vita per fargli recuperare il trauma). Il ciuccio e il biberon come oggetti del demonio. Dalla condanna della eccessiva medicalizzazione del parto, alla luminosa estatica esperienza del parto naturale, meglio se a casa.  Il senso di colpa se fai il cesareo. Il senso di colpa se fai l’anestesia epidurale. Il senso di colpa se non riesci o non vuoi allattare. I pediatri da una parte, qualcuno anche un po’ troppo sbrigativo,  le “amiche” dall’altra, il marito in mezzo (poveraccio). Vincono di solito le guru informate sugli ultimi studi, sulle ultime verità rivelate. Senso del sacro, comprovato dalla scienza: un mix infallibile.

Ora dirò una cosa forte, su cui molti dissentiranno, e va bene così. L’avevo già accennato qui. Mi sembra che una conseguenza dell’overload di informazioni e della paralisi decisionale sia che molte donne, quando diventano madri, anziché maturare verso l’indipendenza di spirito e di giudizio, facciano dei passi indietro nelle logiche adolescenziali del branco. Talvolta sono innocue e superate in fretta con un po’ di esperienza personale, talaltra sono durature e sconfinanti nella setta. Non si accettano più i consigli delle generazioni precedenti, il che può andare bene, ma si diventa preda del gruppo, il che può essere anche peggio. Il gruppo fa trend, fa cool, gli anglicismi impazzano (e poi dicono il marketing): in ospedale, optare decisamente per il rooming-in (al primo l’ho fatto. al secondo, grazie ma anche no, fatemi dormire e portatemelo all’alba … che dite? se piange gli avranno dato un po’ acqua e zucchero?!? AH ORRORE, SHOCK!!)
Non si dice più dormire nel lettone, che è negativo, ma co-sleeping, che è figo. Non si dice “smettila di fare i capricci, su, ti do un’altra cosa” ma, che ne so, fare un “distract & ridirect“. Ma non riusciamo neanche a sentirci un po’ ridicoli?

2. Le categorie e gli stereotipi fissi, peggio ancora se in guerra fra loro.

Prendete questo brano di Crescere con i figli, di M. Ammaniti, a proposito della “condizione mentale della donna nel primo anno di vita del figlio”. Winnicot parla di primary maternal preoccupation, Stern di costellazione materna. Che cos’è? Si tratta di “un’organizzazione mentale temporanea (..) Durante il periodo in cui si afferma, la vita della donna ne è completamente dominata e ogni altro aspetto della sua vita passa in secondo piano”. Bello, ma il problema sta nel prendere tutto come oro colato e dimenticarsi delle sfumature, talvolta neanche tanto sfumate.
Per esempio io durante il nono mese ho discusso al telefono, in lunghe chiamate internazionali, i dettagli del mio nuovo contratto: trasferimento da città estera A a città estera B, agenzia per la ricerca di casa, sostegno del coniuge, fisso e bonus, azioni, macchina, trasporto del gatto, e così via. Era giugno, avrei partorito a luglio, mi sarei trasferita a novembre. Nel frattempo avevo fatto altri colloqui per vedere se saltava fuori un altro lavoro per non dover continuare ad emigrare (non saltò fuori… per fortuna). Come mai non ho detto “che il mondo si fermi! sto per diventare madre, non esiste nient’altro! Ne riparliamo tra uno, no, meglio due anni! Forse tre!” Ops, forse perché non potevo. Ma, in verità, perché non mi è neanche passato per la testa. Forse perché non rientro nell’ideale materno, ma piuttosto in quello antitetico e altrettanto stereotipico di “manager fredda e calcolatrice”.
Ero così ansiosa per l’incastro di tutte le nostre organizzazioni che a momenti mi prendeva il panico. “Come accoglieremo questo bambino? Non abbiamo ancora una casa!” “Guarda che tutto quello di cui lui avrà bisogno è l’amore” mi disse il futuro papà. Menomale che la semplicità degli uomini può afferrarci per i piedi nei nostri deliri e riportarci per terra.

Ammaniti continua così: “La donna si comporta come un’innamorata. Quando incontra il suo bambino, dopo averlo sognato e fantasticato per tanto tempo, le sembra di incontrare il principe azzurro (…) Allo stesso tempo si stabilisce una specie di coreografia. La madre e il bambino si avvicinano e si allontanano in sincronia, si incontrano seguendo un ritmo profondo che solo loro due conoscono.”
Un brano simile, bellissimo, se letto nella fase magica dell’attesa, mi convince che la natura ha predisposto tutto così perfettamente che mi ritroverò trasformata di colpo e senza sforzo in una Madonna. Mi convince anche – se mai ce ne fosse bisogno –  che San Giuseppe non può che essere uno sbiadito comprimario, perché il miracolo della creazione è tutto mio, nelle mie insostituibili braccia (un ritmo profondo che solo loro due conoscono). Quindi chi si alzerà la notte? La Madonna innamorata, è ovvio. È nella natura delle cose. La natura dell’Amore non si mette in discussione.

Eppure io il miracolo della maternità non l’ho mai visto così. Forse perché sono una pessima madre pigra e menefreghista: l’unica Vera Suprema Verità Materna è una strada faticosa, in salita, che impone sacrificio, che io evidentemente non ho abbastanza attributi per affrontare. (Mi sa che mi tocca specificare: il paragrafo appena concluso era sarcastico).

Il conflitto primario che ho visto in atto è quello tra chi si ritrova perfettamente a suo agio in una descrizione idilliaca e pensa che le altre che hanno qualcosa da obiettare siano schifose egoiste, e chi non ci si ritrova affatto e pensa che le altre siano tutte “insopportabile melassa”. Per cui ecco “le decerebrate che fanno solo la mamma e si annullano” oppure “le stronze in carriera che pretendono ancora di andare in discoteca”. Le stesse contrapposizioni stereotipiche si ripropongono, neanche tanto sottilmente, dietro il conflitto tra chi sceglie di stare a casa e chi sceglie di lavorare.

Io, l’avrete capito, parto in seconda posizione (nasco stronza, insomma) ma mi analizzo molto e soprattutto  cerco di non generalizzare mai la… melassa, di distinguere cioè tra chi segue davvero il cuore e chi senza saperlo si fa del male o fa del male ad altri, per cercare di rispettare un’immagine sacra. Oppure tra chi abbraccia tranquillamente il proprio stile più naturale, senza requisitorie verso gli altri, e chi invece sommersa dalla frustrazione di non poter essere quello che vorrebbe, cerca rivincita criminalizzando le altre.

La stessa contrapposizione che genera questa guerra tra donne, a ben guardare,  ha delle basi scientifiche: quella tra madre facilitante, che asseconda totalmente il bambino e si lascia andare ai suoi ritmi, e madre regolatrice, che tende a imporre routine e abitudini, a renderlo precocemente indipendente, che “non vuole viziarlo.”  Io di certo, figlia di madre regolatrice e inguaiata per giunta dal  lavoro, sono per istinto regolatrice.  Penso che tutto questo proteggere i bambini dalle frustrazioni non sia un buon insegnamento: nella vita non puoi sempre avere quello che vuoi, e soprattutto nella vita non troverai qualcuno che scatta ad ogni tuo comando, quindi puoi anche imparare ad aspettare un po’, e poi, meglio ancora, imparare a guadagnarti  le cose a cui tieni. Cum grano salis, è ovvio: non è un discorso che farei ad un neonato di poche settimane.

Infatti quello che molti psicologi dimenticano di sottolineare, è che gli esseri umani sono sfumati e variabili, e tra questi due estremi – assecondante, regolatorio – ognuno troverà i suoi equilibri, le sue vie che non devono essere per forza rettilinee. Qualche volta bisogna imporre, qualche volta bisogna andare incontro.  Qualche volta coccolare, qualche volta staccarsi. E’ l’eccesso costante dell’uno o dell’altro atteggiamento, che non va bene. E’ così difficile da capire?  Pare proprio di sì: e allora giù botte, guerre senza tregua tra il Bene e il Male. Che in realtà sono guerre tra poveri, che dovrebbero solo capirsi e aiutarsi.

Mettiamola così: oggi la maternità diventa troppo spesso un campo di battaglia in cui si è dimenticato il significato della tolleranza e del buon senso e in cui nessuno lascia in pace gli altri. E’ diventata un grande mercato di opinioni, di categorie. Ogni categoria pensa che l’altra voglia dominare, assumere il controllo,  e che quindi vada fermata. Ad ogni costo, incluso l’aggressione e la violenza.

L’unico modo di uscire da questa psicosi collettiva, è ancora una volta difendere la libertà di opinione e di scelta, insistere sul fatto che non esistono soluzioni uniche per tutti. Ogni volta che leggere o linkate uno “studio scientifico”, ogni volta che siete tentati di giudicare una madre come buona o cattiva, per favore pensateci.

Flavia

Il dipinto che ho messo all’inizio è di Carlo Fantauzzi e si chiama Maternità. Altre volte mi è capitato di infilare dei quadri accanto alle testimonianze senza citarli, me ne scuso con gli autori (soprattutto con Frida Kahlo).