Abitare le frontiere (perché tradurre non è mica solo un mestiere)
Sono partita stamattina presto da casa. Ho lasciato mio figlio che alla notizia della mia partenza mi ha detto “mi dispiace che parti , ma tu sei così, mamma, una nomade”.
Alla stazione vado dal giornalaio con cui ci conosciamo da anni. Mi ha guardato e mi ha detto “non ne posso più”. Io l’ho capito cosa voleva dire, non ne può più di essere onesto, di lavorare, di vedere quello che dal suo speciale osservatorio vede tutti i giorni. Un paese che va a rotoli, chiuso su sé stesso incapace di parlare alle sue parti. Mi sento pure io così e proprio per questo ho deciso di partire. Ho parti di me da ricomporre e solo il movimento mi può restituire interezza, lo so. Era qualche mese che non lasciavo la mia città e il solo arrivare a Termini mi ha messo in contatto con un’altra realtà, quella di chi aspetta o prende un treno, o un aereo e va. Io vado a Lisbona, la mia altra casa, il luogo dove ho avuto la mia prima casa da sola, il mio primo stipendio, dove ho imparato ad essere autonoma, a crescere e a capire quello che non volevo. Ci sono arrivata negli anni 80, fresca di laurea, schifata dell’Italia che mi pareva assolutamente un posto senza cielo. La città mi folgorò, immediatamente. Giorno dopo giorno ho sperimentato cosa vuol dire vivere lontano da casa, immaginare il mondo in un’altra lingua, appropriarsi di un luogo. C’erano giorni in cui le uniche parole che dicevo erano quelle che scambiavo con la signora della Biblioteca Nacional che mi portava i libri. Sentivo il rumore del carrello e cercavo il suo sguardo mentre mi porgeva distrattamente i volumi. Passavo intere giornate alla ricerca di tracce di una poetessa morta suicida a poco più di trenta anni che scriveva sonetti perfetti e appassionati. Mi confrontavo con il silenzio sulla sua arte e con l’eccesso di inchiostro speso a indugiare sui particolari di una vita troppo irregolare per l’epoca. Poi la scoperta dei dizionari, passavo ore a cercare parole. Ancora oggi sono la mia passione, ogni parola è un mondo e puoi creare famiglie di idee all’infinito. Forse per questo oggi traduco. E se potessi farei solo quello. Soprattutto poesia. Perchè è nella poesia che lo sforzo di traduzione diventa assoluto. Bisogna avere esattezza ma al tempo stesso arte per accogliere un’altra esperienza del mondo. La poesia più di ogni altra cosa, mi sembra essere un esercizio di lettura di quello che ci circonda, il tentativo di dire. E allora poi la traduzione diventa una specie di esercizio corale, si, non un duetto fra due lingue ma un esercizio corale tra voci diverse che attraversano il testo, quello di chi scrive e quello che cerca di portarlo il più intatto possibile, dentro un altro spazio linguistico. Passo ore a ripensare a certi versi, a trovare soluzioni, come in un rebus, risolto il quale, lo so, quanto più io rimarrò fedele al testo, non troverò altro che me stessa e una parte della mia voce.
Lisbona poi mi ha aperto le porte del mondo, questo è un altro miracolo della mia professione. Pago un prezzo alto. Sono ancora precaria a quasi 50 anni, ma so che non c’è una unica cosa che ho scritto finora che non risponda alla stessa esigenza: comunicare. Comunicare altri mondi per capire meglio il mio, quello che costruisco attraverso un quotidiano esercizio di traduzione dei gesti altrui. Mi occupo di Africa, sto veramente bene solo lì perché, paradossalmente, è un luogo dove mi devo tradurre poco. Sono evidentemente straniera, ma sono quello che sono, valgo per come mi comporto, per come agisco, per la mia capacità di entrare in relazione. In questo senso il mio lavoro è la mia vita, e , insieme a mio figlio, è ciò che rende possibile la mia stessa soddisfatta esistenza in vita. Guardo e osservo cose apparentemente lontane per raccontare, per capire e non per scrivere pagine di sapiente dottrina. Credo che il nostro lavoro sia fatto di vita proprio perché abbiamo scelto di lavorare con la capacità altrui – ma in fondo, anche se in altro modo, pure nostra – di creare nelle arti e nella letteratura.
Lavoriamo forse su varie e tante narrazioni possibili, e il racconto è quindi un po’ come la nostra casa, dove possiamo dire e dare, a nostra volta, forma al nostro pensiero, per poi ricominciare il ciclo guardare-tradurre-restituire e operare così la nostra piccola, (e solo apparentemente) privata rivoluzione.
Livia Apa
cara livia,
in questo piovoso sabato pomeriggio in compagnia delle sole parole di una poetessa, la mia poetessa preferita, alla quale torno sempre come si torna a casa, ho incontrato anche le tue di parole e ti ringrazio e insieme a te ringrazio il contenitore, le Donne pensanti, e Francesca che ho conosciuto personalmente e da allora la sento anche più vicina perchè per me è così, il virtuale senza il reale non mi riscalda.. non è così per la letteratura alla quale ho dedicato gran parte della vita, anche come traduttrice.. spero di rincontrarti Livia, e di continuare a parlare con te, buon viaggio, lidia
il tuo post è bellissimo, non saprei dirlo altrimenti.