Potenza di corpi dissonanti. 2. Questioni di lingua
Mi piace come tutta questa neve, che continua a scendere smisurata e incurante, abbia innescato anche una serie di considerazioni socio-antropologiche, perché la sua straordinarietà irrompe nel nostro quotidiano sconvolgendone le abitudini, e ci rimanda col pensiero a eventi analoghi, inevitabilmente lontani nel tempo, ancora più lontani perché l’accelerazione dei ritmi comporta una contrazione della memoria storica che tende ad appiattirsi sul presente, per cui i fatti invecchiano e spariscono a velocità innaturali.
Riflettere sulle trasformazioni del senso comune, allora, non è tempo perso: non lasciamoci ingannare dalle urgenze di una realtà strozzata nelle maglie di una crisi economica gravissima, in cui sempre più emergono disagi e bisogni legati alla mera sussistenza, non lasciamoci ingannare pensando che tutto ciò che riguarda l’ordine simbolico, la percezione e l’interpretazione della realtà, abbia a che fare con una sovrastruttura temporaneamente accantonabile perché abbiamo problemi più seri a cui pensare.
È, anzi, proprio in questi momenti di emergenza che gli anticorpi si abbassano e che le civiltà rimbalzano indietro: un “rinculo” che si misura in sostanziali perdite nel campo dei diritti, aumento delle discriminazioni e della violenza, imbarbarimento nelle relazioni tra gli individui, che spesso trovano riflesso e incentivo sul piano istituzionale. È proprio in questi momenti, credo, che soprattutto dobbiamo tenere alta la guardia, continuando a interrogarci e a mettere in discussione la società in cui stiamo e che siamo.
Scriveva nel 1981, Luisa Muraro, “Se l’ordine sociale riesce ad avere un consenso che non è direttamente proporzionale agli interessi da esso tutelati, credo che in qualche misura c’entri l’incapacità di inventare autonomamente il senso del proprio esistere” (maglia o uncinetto – racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia, p. 88)
Intrappolati tra i roboanti modelli che ci vengono sistematicamente riproposti a ogni istante delle nostre giornate concitate e distratte, da un lato, e, dall’altro, quella che Muraro chiama una “stereotipata anima arcaica” (87) – come a dire che lo stereotipo non si cura per via puramente essenzialistica, rifacendosi a una presunta autenticità ancestrale – lasciamo che ci vengano cucite addosso proiezioni estranee alla nostra personale evoluzione, rappresentazioni pre-confezionate che in fondo non ci riguardano ma che ci condizionano a tal punto da alienarci da noi stessi (sto strategicamente usando il maschile neutro ma ammetto che ciò mi costa fatica perché, ovviamente, il condizionamento dei modelli imposti non è certo equamente distribuito fra i generi).
Per scardinare gli automatismi a cui il sistema ci ha assuefatti occorre allora continuare a scavare nel linguaggio, smascherandone le mistificazioni e le collusioni più o meno consce e restituendo espressione a quelle eccedenze che il contesto avverso vorrebbe far dimenticare o, al limite, fagocitare, snaturandole e neutralizzandone la potenza. Un terreno fertile ma da dissodare, visto che quanto affermava Ivan Illich più di 40 anni fa, e cioè che il sistema in cui ci ritroviamo “provoca la degradazione di tutte le lingue, e diventa difficilissimo trovare le parole che parlino di un mondo opposto a quello che le ha generate”, è oggi vero all’ennesima potenza.
In maglia o uncinetto Luisa Muraro analizza la conflittualità che nel nostro ordine simbolico si è istaurata fra i due poli che costituiscono, secondo quanto scrive Jakobson nel suo saggio sull’afasia, “il duplice carattere del linguaggio”: il polo metaforico, delle somiglianze a distanza, e il polo metonimico, delle contiguità e del contatto, mettendo in evidenza come la nostra civiltà abbia tradizionalmente dato maggior rilievo e prestigio al polo metaforico. Questa malcelata predilezione per il metaforico la filosofa la collega alla predisposizione dilagante, nel pensiero occidentale, alla generalizzazione e all’astratto e, sul piano politico, al prevalere di sistemi, detti democratici, un tempo basati sulla rappresentanza ma che, oggi più che mai, sono soprattutto sistemi basati sulla rappresentazione, una rappresentazione veicolata, e spesso distorta e banalizzata, dai mass-media. Rappresentanza e rappresentazione sono, appunto, concetti metaforici, perché si basano su una opinabile somiglianza tra rappresentante e rappresentato e non sul loro contatto: la loro natura eminentemente metaforica contribuirebbe in misura determinante alla generale “perdita di senso e di presa sulla realtà” (Muraro, 35) che contraddistingue il nostro tempo. Partendo da queste premesse, il saggio delinea, con uno stile fatto di salti più per “confinità” che per affinità, una proposta di “guerriglia linguistica” che, riportando l’accento sul corpo, la materia, le contaminazioni ubertose, fatte per vicinanza e non per presunte somiglianze fra entità lontane e impermeabili, si adoperi per contrastare l’aggressione omologante, che il linguaggio egemone, con i suoi stereotipi martellanti e insidiosi, contribuisce massicciamente a consolidare. Nel regime dell’ipermetaforicità ci ritroviamo davanti una strana immagine di noi stessi, un simulacro costruito altrove, al punto che davvero stentiamo a riconoscerlo, ma che ci viene fatto credere che siamo proprio noi, tanto che ci accaniamo per identificarci con lui, alienandoci. Il regime dell’ipermetaforicità, tra l’altro, ci restituisce noi stessi privandoci di qualcosa di prezioso: la perdita del legame tra sapere e piacere (v. Muraro, 90 e 98). Fondamentale diventa allora riprendere coscienza dei propri desideri, riattivare “la produttività simbolica della materia”, far sì che i corpi “taglino di traverso l’espansione del metaforico” tornando ad additare le cose, a spezzare i linguaggi dominanti e portando alla parola esperienze finora mute.
Proprio da questa istanza prende vita lo spettacolo ormai notissimo di Eve Ensler sui Monologhi della vagina: scorci di vite femminili dalla prospettiva inedita di quello che, anche fisicamente, sarebbe il centro del nostro corpo, un centro rimosso però, marginalizzato, troppo spesso oscurato, dimenticato nell’oblio, inascoltato nei suoi richiami più profondi. Storie traumatiche, di violenze terribili, inibizioni e sensi di colpa, ma anche aneddoti divertenti, ricordi che fanno sorridere, pensieri bislacchi. Odori, sapori e umori. Si ride e si piange leggendo questi pezzi di vita. Si impara, anche, e ci si sente meno sole:
Così ho deciso di parlare alle donne della loro vagina, di fare delle interviste sulla vagina, che sono diventate i monologhi della vagina. Ho parlato con più di duecento donne, giovani, vecchie, sposate, single, lesbiche: docenti, attrici, manager, professioniste del sesso; donne afroamericane, ispaniche, asiatiche, native americane, caucasiche, ebree. All’inizio erano riluttanti, un po’ timide. Ma una volta partite, non riuscivi più a fermarle. Sotto sotto le donne adorano parlare della loro vagina. Le eccita molto, forse perché nessuno gliel’ha mai chiesto prima. (21)
È la parola stessa a straniarci: inattesa nella sua scientificità perturbante, volutamente ripetuta come un mantra, nella consapevolezza che sulla scena si sta consumando l’infrangimento di un tabù, giocato su una performatività del linguaggio – quel dire che fa accadere – metonimicamente presa alla lettera (in quanto inscenata su un palco teatrale):
La dico perché non è previsto che la dica. La dico perché è una parola invisibile – una parola che suscita ansia, imbarazzo, disprezzo e disgusto.
La dico perché credo che ciò che non si dice non venga visto, riconosciuto e ricordato. Ciò che non diciamo diventa un segreto, e i segreti spesso creano vergogna, paura e miti. La dico perché un giorno o l’altro vorrei sentirmi a mio agio pronunciandola, e non vergognarmi o sentirmi in colpa. […]
Dico “vagina” perché quando ho cominciato a pronunciare quella parola ho scoperto quanto fossi frammentata, e come risultasse scollegato il mio corpo dalla mia mente. […]
Fa paura pronunciare questa parola. “Vagina.” All’inizio hai l’impressione di sfondare un muro invisibile. “Vagina.” Ti senti in colpa, a disagio, come se qualcuno stesse per colpirti. Poi, dopo che l’hai detta per la centesima o la millesima volta, ti viene in mente che è la tua parola, il tuo corpo, la tua parte più essenziale. All’improvviso ti rendi conto che la vergogna e l’imbarazzo che provavi pronunciandola miravano a mettere a tacere il tuo desiderio, a erodere la tua ambizione. Poi cominci a usarla sempre più spesso. La dici con una sorta di passione, di premura, perché senti che, se smetti di pronunciarla, sarai di nuovo sopraffatta dalla paura e ricadrai in un mormorio imbarazzato. Così la ripeti tutte le volte che ti capita, la fai emergere in ogni conversazione. La tua vagina ti emoziona: vuoi studiarla, esplorarla, conoscerla, scoprire come ascoltarla, darle piacere, e conservarla sana e saggia e forte. Impari a soddisfare te stessa e a insegnare al tuo amante a soddisfarti. […]E quanto più le donne pronunciano la parola vagina, minore è l’effetto che fa; diventa parte del nostro linguaggio, parte della nostra vita. La nostra vagina diventa integrata, rispettata, sacra. Diventa parte del nostro corpo, collegata alla nostra mente, e carburante per il nostro spirito. La vergogna se ne va e la violenza cessa, perché la vagina è qualcosa di visibile e di reale, ed è associata a donne potenti e sagge che parlano di vagina. (Ensler, 15-18)
Dire allora sì che fa accadere. Fa essere. Il groppo della lingua, ancora una volta, si rivela cruciale: è il non-detto che occorre ri-immettere nella narrazione della realtà per spezzare i dispositivi omologanti che agiscono anche nel nostro inconscio. Ecco che il desiderio femminile smette di essere osceno (letteralmente, “ciò che sta al di fuori della scena”, che dovrebbe starsene nascosto) per mettersi invece al centro del palcoscenico, ecco che si trasforma, come scrive Elena Pulcini nel Potere di unire di cui parlavamo qualche giorno fa, “da zona vuota e mancante in impulso attivo all’azione e alla parola, […] prima e imprescindibile condizione per una ricostruzione di sé che prelude anche a una diversa interpretazione del reale, capace di scardinare i codici e le rappresentazioni egemoni” (XX).
Il corpo selvaggio estromesso dalle rappresentazioni dominanti, tese a omologarlo, subordinarlo, azzittirlo, possederlo, riprende potentemente voce e forma, dando vita a “combinazioni non conformi ai significati dominanti” (Muraro, 86): il testo sociale allora viene “scompaginato […] e ricombinato secondo le proprie esigenze e il proprio particolare sapere”. Quanto queste pratiche possano essere destabilizzanti per i sistemi costituiti stiamo cominciando a capirlo e lo vedremo meglio più avanti, incontrando storie di donne da luoghi e da tempi diversi dai nostri. Ma non troppo.
Nella foto Zoè Gruni, Carmen, OCCCA 3D opening – 54. A quest’opera è collgato un video che trovate qui
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