Care donne, ossequiose ne confronti della violenza maschile
Care donne ossequiose,
Voi che avete espresso solidarietà ad un critico letterario denunciato da una donna per estorsione; una donna ricattata con foto che la ritraevano in intimità. Non voglio entrare nel merito di questa vicenda su cui indagherà la magistratura ma voglio raccontarvi una storia.
E’ una storia delicata e dedicata a tutte le donne che aderiscono alla cultura che accetta, tollera, l’uso violento del potere da parte degli uomini. Quella cultura che le vuole acquiescenti e ossequiose, domate e genuflesse a quel potere; che sia il potere del corpo o del sesso maschile, oppure il potere che deriva dal denaro o dal ruolo sociale degli uomini. Quel potere che molte volte esercita violenza sul corpo, sul sesso, sulle risorse economiche, sui progetti di vita delle donne e sulla loro vita privata e sociale. Quel potere al quale altre donne si ribellano e che non sono disposte a tollerare.
Care donne ossequiose, questa è una storia vecchia di trent’anni ma ancora attuale.
Avevo quattordici anni e conoscevo di vista una giovane donna che aveva una decina di anni più di me. Lavorava nel piccolo paese di mare della riviera romagnola dove ho vissuto a lungo. Un piccolo paese disabitato in inverno e popolato di turisti l’estate. Avvenne che in una notte autunnale la giovane donna subì uno stupro di gruppo da parte di quattro coetanei. Aveva simpatizzato con uno di loro in discoteca ed era uscita per appartarsi con lui. Ma lui aveva portato anche gli amici per “divertirsi”. Una storia terribile simile a tante che si ripetono ancora oggi. Il “divertimento” da condividere con gli amici era stato una violenza di gruppo.
Lei denunciò pagando con la solitudine e l’emarginazione della piccola comunità; un isolamento alimentato da ostilità, insulti e denigrazioni: tutti per lei che aveva “rovinato quattro bravi ragazzi, tutti lavoratori”.
Un giorno la incontrai sull’autobus, era in piedi accanto a me, lo sguardo perso nel vuoto. Ero seduta e le offrii il mio posto ma lei non rispose, la sua mente era altrove; in quei giorni si stava celebrando il processo. Improvvisamente cadde a terra svenuta. Venne soccorsa dal controllore. Mi alzai per darle il mio posto. Il controllore mi invitò a sedere in fondo all’autobus. Mi sistemai accanto a tre giovani donne.
Mormoravano guardando nella direzione dove lei era seduta, ancora priva di conoscenza. Erano così vicine a me che potevo sentire i loro commenti: le rivolgevano insulti e disprezzo. Manifestavano rammarico per “la vita rovinata di quei quattro bravi ragazzi”. Erano feroci nelle loro invettive. Mi si strinse lo stomaco. Conoscevo anche loro di vista. Venni presa da un sentimento di indignazione profonda.
Il processo si concluse e nessuno di quei ragazzi ebbe la vita rovinata. Non fecero un giorno di prigione: incassarono le attenuanti generiche (lei aveva “provocato” invitando il ragazzo fuori con lei) , una condanna a due anni con la condizionale e tanta solidarietà dalla collettività. Lei invece visse tutto in solitudine con la famiglia incapace di darle alcun sostegno per la vergogna della stigmatizzazione sociale. In paese non la vidi mai più.
Ma adesso care donne ossequiose voglio raccontarvi la parte significativa della storia.
Trascorsero diciotto anni. Un pomeriggio, nel primo centro antiviolenza dove ho collaborato come operatrice negli anni novanta, trovai seduta davanti a me una di quelle tre ragazze. Proprio una di quelle che quella mattina sull’autobus pronunciava insulti feroci nei confronti della giovane che aveva denunciato lo stupro.
Una di quelle che si rammaricava per la sorte di quei “quattro bravi ragazzi”.
Era diventata una donna matura che usciva da un matrimonio finito con una separazione. Aveva due figli e il marito si era trasferito all’estero e non le passava gli alimenti. Lei lavorava mantenendo la famiglia ma da almeno un anno subìva i ricatti sessuali del datore di lavoro. Non ce la faceva più. Il sindacato, a cui si era rivolta, non le aveva dato alcun aiuto. Le aveva risposto che non c’erano testimoni, né prove del ricatto sessuale.
Era disperata perché licenziarsi avrebbe significato perdere l’unica fonte di reddito, restare avrebbe significato continuare a subìre umiliazioni e violenze sessuali, denunciare avrebbe significato affrontare il calvario di un processo per violenza sessuale. In un modo nell’altro c’era un prezzo altissimo da pagare. Eppure era una vittima e stava subendo ingiustizia. Non sapeva cosa fare.
Si affacciò in quella stanza la quattordicenne che ero stata e che aveva ascoltato disgustata gli insulti ad una giovane che sveniva nei giorni del processo per il suo stupro. Per qualche istante ebbi la tentazione di trasgredire la deontologia del centro antiviolenza, per un istante fui tentata di essere feroce anche io e domandarle se avesse cambiato idea su quello stupro e sulla vittima di tanti anni prima.
Fu solo un istante. Poi la vidi: era una donna che stava subendo violenza e aveva diritto al rispetto, all’aiuto, al riconoscimento, alla giustizia, alla solidarietà, all’affetto. Aveva incontrato anche lei come quella ragazza di diciotto anni prima, quel “destino possibile” nella vita delle donne che è la violenza maschile.
Grazie per questo racconto di vita, Nadia: dice molto di più di tanti numeri e di tanti saggi. Ti fa sentire sotto la pelle cosa vuol dire lasciarsi influenzare dal contesto, perdere il contatto col nostro io più profondo, diventare colluse, senza neanche rendercene conto, con un sistema che ci penalizza, ci fa valere poco, ci strumentalizza e ci schiaccia, Smettiamola di esserne complici!