Anatomia di un femminicidio. “Questo è il mio corpo”, di Filipa Melo
Questo è il mio corpo, pubblicato nel 2001 dalla scrittrice portoghese Filipa Melo, è un romanzo interamente costruito attorno al cadavere di una donna ammazzata dall’uomo con cui aveva una relazione. Non ha nessuna pretesa emblematica, come mai dovrebbe averne un’opera letteraria, nulla che possa essere utilizzato direttamente in una ricognizione sul fenomeno che finalmente si sta cominciando a chiamare col suo nome, femminicidio, e dico “finalmente” perché nominare significa distinguere, significa riconoscere una specificità, nonostante le pervicaci resistenze e gli attacchi piccati di chi ancora si ostina a negare l’esistenza di omicidi perpetrati sulle donne in quanto donne e, con essa, la profonda compromissione di questa tragica realtà con una cultura gravemente e colpevolmente sessista.
Questo è il mio corpo è mera rappresentazione, ed è dallo spazio libero della sospensione del giudizio che giunge a sfidarci con una serie di interrogativi impliciti di grande impatto, emotivo e riflessivo.
Il corpo morto di Eduarda è infatti il potente centro propulsore di tutto il romanzo: la donna, ritrovata una notte ai margini di un fiume col volto talmente sfigurato dagli agenti atmosferici da essere ormai irriconoscibile, viene ripetutamente raccontata da differenti angolature, corrispondenti ai punti di vista di personaggi maschili che entrano in relazione con lei, in vita o – è il caso dell’anatomopatologo che esegue l’autopsia sul suo corpo – dopo la morte. Ogni descrizione la tessera di un articolato mosaico che è il ritratto della donna e, insieme, del microcosmo vischioso in cui Eduarda viveva immersa, un grumo di animalità e umanità che non arriva mai a sciogliersi del tutto, in cui sono racchiusi l’orrore e la potenzialità di rinascita.
La personalità di Eduarda viene ricostruita, in primo luogo, attraverso lo sguardo, insieme scientifico e inquietante, del medico che prepara il suo referto di morte, che fa uso di un lessico in gran parte riconducibile a un’area semantica fondamentale: quella del possesso attraverso un atto sessuale che confina con lo stupro. L’uomo, incapace di rapportarsi all’imprevedibilità fantasiosa della vita, si trova morbosamente a suo agio con “i suoi morti”: corpi muti, docili e incapaci di gesti inconsulti, di cui è padrone e aruspice. L’altro uomo che ci parla di lei è Miguel, il suo collega veterinario, che non concepisce natura umana e legge donne e uomini unicamente alla luce delle sue competenze sulle specie animali. Un anatomopatologo e un veterinario: ecco i due sguardi stranianti che ci raccontano la protagonista, un esperto di morte e un esperto di animali. Anche questo è un elemento fondamentale che ci dà la misura del dramma inscenato in Questo è il mio corpo, che è la tragedia – non uso il termine a caso, come vedremo fra poco – dell’incomunicabilità e delle mancate agnizioni. Oggetto del desiderio dei due narratori principali, Eduarda è invece incompresa o addirittura misconosciuta dai due uomini che desidera, i quali, poi, sono entrambi riconducibili a un’unica figura, quella paterna: António, padre naturale, vivo ma perduto, perché dalla morte della moglie si è isolato in un lutto alieno a ogni contatto con qualsiasi forma di vitalità, e Jacinto, l’amante adocchiato un giorno in un bar e risolutamente portato a casa con rari e scarni scambi verbali, di parecchio più anziano di Eduarda, gli occhi dello stesso azzurro molto chiaro, quasi slavato, del padre, quel padre sordo alle storie dei suoi animali, alla vita che lei si lascia circolare dentro e vicino, cieco al suo amore. Perché Eduarda era irrequieta, selvatica, “come un animale nervoso, in allerta”, dice Miguel: una volpe, apparentemente indomita, ma che – Miguel lo aveva sempre saputo – avrebbe trovato da qualche parte un’altra volpe, “quella per cui, se fosse stato necessario, […] sarebbe arrivata a morire, offrendosi senza opporre resistenza”. E infatti l’altra volpe arriva: la relazione tra Eduarda e Jacinto è talmente animalesca da eliminare quasi del tutto la parola, la cifra della nostra umanità. La volpe arriva ed Eduarda rimane ferita a morte. La sua vitalità febbrile esprime la ricerca di uno sguardo che, riconoscendola, le dia una forma più solida e meno sfuggente. Ma lo sguardo rimane glaciale e diventa quello del suo assassino.
È proprio il riconoscimento mancato il movente della tragedia edipica, che viene qui sottilmente evocata nella sconvolgente scena iniziale in cui vediamo che il cadavere di Eduarda viene ritrovato da suo padre che, però, non la riconosce, essendo il suo volto talmente tumefatto da essere irriconoscibile. In morte come in vita, quel padre non sa vederla: “questo è un volto abbandonato”, ripete più volte l’anatomopatologo.
E sarà proprio quel surrogato di padre che la donna ha scelto come amante a ucciderla, in un precipitare di silenzi, omissioni, equivoci e bugie. Eduarda è il vulnerabile – quello splendido limite che è cifra della nostra umanità – che diventa inerme, perché non trova uno sguardo capace di accoglierla, vittima dell’orrore che è, appunto, figurazione disumanizzante ai danni di un corpo vivente, distrutto e smembrato nella singolarità dei suoi tratti (per approfondire il tema dell’orrore legato all’inerme, si veda il saggio di Adriana Cavarero, Orrorismo). Eduarda è vita trasbordante: segue i propri istinti, si riconosce nell’animalità dei suoi “pazienti”, apre il suo corpo alla maternità – quando viene uccisa ha da poco partorito– per poi rifiutarne le responsabilità (il piccolo viene lasciato in ospedale e sarà il nonno a prendersene cura: ancora un lascito che è vita palpitante e che strapperà finalmente António a quell’abulia da cui Eduarda non era mai riuscita a riscattarlo), dilaga, rincorre, desidera. Disordinatamente e senza posa, come caotico è l’inarrestabile flusso delle cose vive. La vita è disponibilità al confronto, coraggio di esporsi, è potente tensione ostensiva, tragica, perché può gettarci nelle mani del nostro carnefice. E infatti il suo amante soffoca Eduarda proprio nel momento in cui lei gli si sta offrendo, fiduciosa:
“Lui capì che si abbandonava, quali che ne fossero le conseguenze. Che non avrebbe opposto resistenza. Che avrebbe esaurito tutte le sue forze in un altro momento, in un altro luogo, espellendo la paura e sperimentando il dolore, e che per questo ora non si difendeva, stremata. Le parole avevano terminato il loro corso e senza di esse lei non possedeva difese.” (p. 104, corsivo mio)
Anche sul tavolo dell’autopsia il corpo di Eduarda è generosa profferta che nulla più cela. E di nuovo un uomo approfitta del suo darsi, sviscerandola come se la stesse penetrando, compiaciuto e vile. Disperatamente più morto di lei.
E allora mi pare che Questo è il mio corpo sia anche un romanzo su quella che Gianrico Carofiglio nella Manomissione delle parole chiama “la povertà della comunicazione”, che spesso “si traduce in povertà dell’intelligenza, in doloroso soffocamento delle emozioni.” Ci ricolleghiamo così a un tema che ci preme: la questione della lingua, dell’espressione, del racconto e la sua – troppo spesso ignorata – connessione con la violenza, l’importanza di insistere su questi aspetti in una prospettiva di educazione al genere che si configuri anche come percorso di prevenzione contro una relazionalità intrinsecamente violenta. Scrive ancora Carofiglio:
“Quando per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando le parole fanno paura, e più di tutte proprio le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza; quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi.
La violenza incontrollata è uno degli esiti possibili, se non probabili, di questa carenza. I ragazzi sprovvisti delle parole per dire i loro sentimenti di tristezza, di rabbia, di frustrazione hanno un solo modo per liberarli e liberarsi di sofferenze a volte insopportabili: la violenza fisica. Chi non ha i nomi per la sofferenza la agisce, la esprime volgendola in violenza, con conseguenze spesso tragiche.” (pp. 18-19)
Nominare la sofferenza e la disperazione è proprio ciò che invita a fare l’antropologa Giulia Zanini in un articolo molto bello che, insieme all’incontro con Nerina Cocchi e Daniel Pinheiro che mi hanno raccontato il progetto di Ni una más, mi ha fatto riaffiorare alla memoria questo romanzo di Filipa Melo, che avevo letto diversi anni fa. Riprendo le sue testuali parole perché ritengo vadano diffuse e meditate, così come credo vada corrisposto il suo invito a riflettere in forma condivisa sui sentimenti negativi, sulle paure, sulla rabbia:
“Credo che una delle chiavi della comprensione di un comportamento che non si può dire folle né eccezionale passi attraverso l’indagine del legame che porta delle persone a provare intenso dolore e estrema disperazione […] E credo che sia importante provare a considerarlo un legame strutturale dal punto di vista culturale per scardinarlo alla base. […] C’è una questione culturale, una mascolinità che propone e normalizza, tra le sue varianti, quella di un uomo che trova indolore (e piacevole) il dominio e speranza nell’esercizio del potere, ed è questo uno degli aspetti su cui, a mio avviso, dovremmo cercare di lavorare.
E poi c’è un secondo momento, che è quello della gestione dei sentimenti. Tutti abbiamo provato o proveremo dolore, tutti prima o poi avremo la sensazione di essere disperati, ma quello che dobbiamo evitare è che i dolori e le disperazioni individuali diventino distruttive della vita degli altri. Una soluzione per tutti noi è quella di imparare a gestire i sentimenti spiacevoli, dolorosi e negativi senza insultare, picchiare e uccidere chi ci sta vicino né chi pensiamo sia causa di questi sentimenti. In questo caso, però, a mio avviso, il problema della gestione del dolore e della disperazione di questi uomini è strettamente legato ai sentimenti che li generano ed è questa forse una delle ragioni per cui questi uomini uccidono. Perché ritengono legittimo essere estremamente gelosi, essere ubbiditi e ascoltati, essere disperati per quello che credono uno sgarbo da parte della compagna, essere frustrati dal fatto di non saper dominare, essere dalla parte della ragione e delle regole da rispettare e legittimati a ristabilire l’ordine, essere in possesso di un’altra persone e poter decidere per lei.
Vorrei chiarire ancora un punto. Credo che gli uomini che infine esercitano violenza siano coscienti e consapevoli, non vittime, né sopraffatti da follia o sentimenti incontrollabili, credo che ognuno faccia su se stesso un lavoro di coscienza costante e che da quello derivino parte dei sentimenti che proviamo e delle azioni che ci permettiamo. Credo anche che questi sentimenti e comportamenti siano diffusi perché hanno un riconoscimento nella nostra società. Che se esistono degli uomini che provano questo tipo di dolore e di disperazione, anche se non li esprimono con la violenza, sia comunque una situazione pericolosa per la maniera in cui si organizzano i rapporti interpersonali. E credo che sia dovere di tutti, in ogni occasione e con i bambini e bambine e ragazzi e ragazze in particolare, riflettere sulla natura dei nostri sentimenti, sul tipo di rapporto che vogliamo avere con gli altri e sulla gestione delle frustrazioni. Che fanno parte della vita. Come la morte. Ma tra le morti che vogliamo piangere non deve esserci questo tipo di morte.”
Da questo intento mi pare muova anche l’esperienza del centro modenese LDV (Liberiamoci dalla Violenza), il primo in Italia a lavorare con gli autori di violenze sulle donne, a cui le Frequenze di Genere hanno dedicato una puntata qualche settimana fa (il 10 novembre 2012), intervistandone la coordinatrice, la sociologa sanitaria Monica Dotti.
Quello che si caldeggia è un processo di ricognizione critica a 360 gradi dentro a quello che è un nodo cruciale della nostra società: un retaggio di saperi e poteri che si annidano nelle relazioni fra i generi e che ancora fatica a essere riconosciuto come l’humus fertile in cui si sviluppa quella volontà di controllo e quel senso di possesso che sono la tacita giustificazione alla violenza, la loro fin troppo naturalizzata premessa. Filipa Melo si immerge in questo elemento che istintivamente repelle tante donne, utilizzando uno strumento per sua natura aporetico come la letteratura, che agisce emozioni, sentimenti e passioni, ci sviscera le storie eludendo ogni possibilità di anonimato. Chi scrive sfida i ritmi che il nostro tempo ci impone: rallenta, si sofferma su un unico caso, spesso mai accaduto, e di quell’unico caso si prende amorevole cura, non omette nulla di ciò che va detto, lasciando affiorare anche quel lato oscuro che troppo spesso viene rimosso oppure idolatrato, perché l’omologazione del sentire lo ha reso estraneo alle convenzioni mentre lui tuttavia continua a esistere. Imperterrito. Insistere sulla fisicità e sull’animalità delle relazioni è, in questo senso, un valore aggiunto di Questo è il mio corpo, perché ci permette di stratificare ulteriormente una questione urgente e complessa come quella del femminicidio senza trincerarla in un unico campo ma esplorandola in quei coni d’ombra che il nostro giustificato disgusto e la nostra rabbia spesso ci impediscono di tenere in considerazione. Credo, infatti, che ogni tentativo di capire le relazioni fra i generi che abbia la pretesa di non restare in superficie debba spingersi verso questo abisso, attingendo a questo pozzo buio in cui sopravvivono anche l’ancestrale e l’animalesco. Per questo non condivido l’opposizione all’uso del termine “femmina” che ho sentito fare più volte, per esempio, da Michela Marzano e, di conseguenza, di quello di “femminicidio” (Giulia Zanini, nell’articolo che citavo poco fa, propone en passant l’alternativa donnicidio): non è obliterando la nostra animalità che verremo a capo dell’arcano conflitto. Non siamo puro istinto, eppure siamo anche animalità. Non è mutilandoci di questa animalità, rimuovendola, che smaschereremo i meccanismi del sopruso, della sopraffazione, della volontà di annientamento che ha ucciso molte di noi. Non cadiamo nella trappola dicotomica di chi continua a opporre razionale e istintivo, umano e animale, come se fossero entità antitetiche e inconciliabili, perché simili tentativi riduzionisti producono verità mutilate, di scarsa durata ed efficacia, mentre nella nostra lotta per la trasformazione delle relazioni e della società ancora così profondamente intrisa di discriminazioni noi vorremmo partire da una concezione degli individui che sia piena, complessa, sfaccettata. E possibilmente non atterrita dalle (umane) contraddizioni.
Penso che sul tema del femminicidio anche la letteratura (quella fatta bene, come nel caso di questa autrice) possa dare un contributo importante per capire il fenomeno. A me sembra che troppo spesso si utilizzino gli stessi criteri che si adottano per lo stupro e la violenza sessuale, invece vedo molte differenze. Nel femminicidio gli assassini molto spesso si tolgono la vita, o comunque commettono un omidicio talmente palese che non sussiste la speranza di impunità che può esserci nello stupro. Non so se si tratta di ‘animalità’, di sicuro si tratta di esplorare in profondità quei coni d’ombra di cui parla Silvia. Purtroppo il dibattito attuale è ancora concentrata sul fatto che i femminicidi esistano o meno, anche perché si affrontano quasi solamente gli aspetti giuridici che secondo me (diversamente dallo stupro, che non era riconosciuto come reato contro la persona) c’entrano poco.