Racconto di TERRA: il Cile dei Mapuche
[continua]
Ho rivisto Muriel dopo nove anni e mezzo, in uno degli ambulatori dove lavora, una posta de salud rural , che serve piccole cascine sparse nella campagna cilena, a qualche decina di chilometri da Temuco, capoluogo dell’Araucanía.
C’eravamo salutate nel gennaio del 2006: sono andata all’aeroporto con mia figlia Anita che aveva meno di un anno. Un giorno di gennaio: forse oggi.
Sono scesa giù fino a casa sua, dopo una tappa a San Carlos, il pueblo dove nel 1917 nacque Violeta Parra, e subito sono stata avvolta dalla sua quotidianità a Vilcún, un piccolo comune nella provincia di Cautín, circa 20.000 abitanti, più della metà dei quali vivono nell’area rurale, circostante il piccolo centro urbano. Molti di loro sono Mapuche, il popolo della terra: questo significa la parola.
E il secondo elemento a cui voglio tornare con questo nostro percorso, dopo l’acqua dell’Escuelita di Buenos Aires, è proprio la terra: superficie e scavo, generosa se amata, sterile quando ci si accanisce contro di lei, mortificandola. Le parole del manifesto Terra viva si srotolano con spontanea pienezza dentro di me, che da poco le ho rilette insieme ai miei alunni di prima media, mentre imparo a conoscere questo popolo che ha resistito per diversi secoli alla colonizzazione degli spagnoli, giunti in terre così lontane con le loro armi da fuoco, le loro malattie, le loro pretese assurde. A portar dolore, brutture, lutti. Nel video Nación Mapuche – Donde se cultiva la palabra profunda , così viene descritta la condizione dell’essere mapuche, con parole che dovremmo ricominciare a condurre semplicemente allo stato di umanità, che è poi parola che condivide la sua radice etimologica proprio con l’humus, la terra: “essere parte di tutto il cosmo, l’universo, contemplarlo in armonia”, in un dialogo con la terra, parlando con la natura, puntando all’autosufficienza, non all’arricchimento (“a cosa serve tanta ricchezza?”). Alla terra, i Mapuche, “consacrano il loro amore e la loro parola”. La loro parola, sì, perché la terra è viva e interlocutrice mentre questo, dice uno dei mapuche intervistato nel video, non fa parte della mentalità degli winka, che poi saremmo noi: gli occidentali, gli stranieri, i diversi. Storicamente avulsi da certe armoniose evidenze.
Allora parlerò della lingua-terra, di come la parola si faccia cosa, tutt’uno col cosmo, attraverso la musicalità del canto e della poesia.
Le lingue sono schiavi che chiudono mondi/Le lingue sono chiavi che schiudono mondi.
L’estinzione delle lingue o la loro riduzione a funzioni minime e territori esigui cela spesso violenze sanguinarie. Le Americhe, che a tutt’oggi vengono narrate dai libri di storia delle nostre “buone scuole” come terre in cui la maggior parte delle popolazioni sopravvivevano in uno stato primitivo nemmeno troppo sottilmente connotato come menomato, all’arrivo degli europei, tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, erano luoghi di straordinaria ricchezza linguistica. Molte lingue sono state discriminate poi addirittura represse attraverso politiche accentratrici ed eurocentriche: un vero e proprio processo di glottofagia, come lo ha chiamato Louis-Jean Calvet.
Una delle lingue native più coriacee la troviamo nelle terre mapuche e questa permanenza orgogliosa è riflesso dell’ostinata resistenza al colonialismo di questo popolo: fra la parte centro-meridionale del Cile e l’Argentina occidentale ancora oggi esistono circa 440mila persone (400+40mila) che parlano il mapudungun, di cui tre giorni fa si è riconosciuta l’ufficialità per la regione dell’Araucanía. Purtroppo esprimersi in questa lingua è stato a lungo stigmatizzato e solo dagli anni Novanta essa è stata rivalutata, grazie soprattutto ai giovani mapuche che, negli ultimi 20-30 anni, hanno cominciato a riappropriarsene e a infonderle nuova linfa, per riportare alla luce un patrimonio culturale che stava andando perduto. Man mano che le lingue scompaiono spariscono dei mondi e spesso questi mondi sono portatori di una sapienza necessaria: condivido in pieno quanto detto dall’ambientalista statunitense Klaus Toepfer, che “perdere un linguaggio e il suo contesto culturale è come bruciare un testo fondamentale relativo al mondo naturale”. È possibile allora passare proprio per la lingua per rigiocarsi il dialogo fra diversità e trasformare la connotazione dispregiativa che, per motivi storici facilmente intuibili, tradizionalmente ha in mapudungun la parola “lenguaraz“, interprete, in una metafora finalmente positiva, di colui che riesce a creare un intimo scambio con l’alterità (e di nuovo pensiamo alla bella metafora di Berman, della traduzione come’albergo nella lontananza).
E la lingua mapudungun è proprio manifestazione del legame che esiste fra i mapuche e la terra: è lei che dice il loro percepirsi come un popolo, con i suoi spazi, le sue storie, canzoni e riti. Tradizionalmente la sapienza mapuche era trasmessa oralmente nell’ambito del lof, la comunità, attraverso racconti e manufatti. La grafia ufficiale è stata creata dopo la loro sottomissione agli winka. Nella loro saggezza ancestrale troviamo infatti lo sguardo proprio dell’oralità, che è uno sguardo letteralmente più ampio, visto che, come ha scoperto l’antropologo Pierre Pica, alfabetizzandoci perdiamo la visione laterale dello spazio (1) .
Yo canto a la diferencia: rac-cantando i Mapuche insieme a Violeta Parra
(rapido excursus storico)
Interpretando Arauco tiene una pena di Violeta, il contatto con il mondo dei nativi si fa ravvicinato: il secolare sopruso degli uomini sugli uomini. Vi compaiono i nomi degli eroi mapuche, Lautaro Caupolicán Galvarino, che nel XVI° secolo combatterono con coraggio impressionante per preservare l’indipendenza delle loro genti , ma anche i nomi di quei mapuche che piegarono la testa, concedendo troppo ai bianchi o addirittura agevolandoli nel loro smisurato impeto di sopraffazione. A cento anni dall’arrivo di Pedro de Valdivia in Cile , nel 1641, gli Spagnoli firmarono con i mapuche, un trattato di rispetto dei territori indigeni che inaugurò 240 anni di orgogliosa indipendenza per il popolo nativo.
Il periodo tra il 1793 e il 1881, in cui cade anche l’indipendenza cilena dalla corona spagnola (18 settembre 1810), possiamo considerarlo l’età d’oro dei mapuche. Nel 1861, Saavedra fece il suo piano di pacificazione dell’Araucanía, progettando di utilizzare il metodo nordamericano delle riserve, costruendo poi ferrovie e infrastrutture. È del 1881, anno della fondazione di Temuco, la prima legge che tentò di colonizzare i mapuche con le armi: le città si riempirono di coloni, le terre vennero date a latifondisti, gli indigeni furono confinati nelle riserve (reducciones) e si ritrovarono a poco a poco schiacciati dalla macchina del capitalismo neoliberista. Tra 1878 e 1884 si ordinò di cacciare gli indigeni come fossero “cinghiali selvaggi”: 20 anni ci vollero per assoggettare l’Araucanía. Nel 1930, con la cosiddetta radicación, le terre dei Mapuche – il leggendario territorio wallmapu – passarono da 10 milioni di ettari a 500 mila e gli indigeni vennero confinati in 3078 riserve. Gli eroi nazionali mapuche sono stati strumentalizzati a lungo dalla propaganda nazionalista cilena: l’orgoglio per questi valorosi combattenti coesiste(va) acriticamente col disprezzo per gli indigeni coevi.
Al popolo della terra la terra viene brutalmente rubata.
Tra 1890 e 1895 ai Mapuche vennero inflitte traumatiche sconfitte: furono anni di paura, epidemie, gravissime crisi soggettive. Iniziò allora il processo di ridefinizione dell’identità dei Mapuche come minoranza etnica nell’ambito della società rurale cilena. Tra il 1884 e il 1919, circa 80mila nativi vennero confinati in 3000 reducciones, mentre 9 milioni di ettari vennero assegnati a stranieri e a coloni cileni. La storia ufficiale, come spesso accade, ha tentato di giustificare questo sopruso adducendo come scusa una sorta di difetto intrinseco degli Araucani, preferendo omettere la brama smodata con cui si puntava alle loro terre.
Qual è il motivo della persistente incapacità dello stato di consultarsi con i propri cittadini indigeni? L’autodeterminazione della popolazione indigena continua a essere motivo d’inquietudine per i governi di Cile e Argentina.
Tra 1927 e 1972, 800 comunità indigene (125mila ettari) vennero suddivise in unità familiari. La frammentazione delle terre mapuche conobbe un ulteriore incremento durante la dittatura di Pinochet. La parcellizzazione ha avuto effetti distruttivi per la coesione interna della nazione mapuche: i lonko, capi tradizionali dei lof, le comunità, vedono oggi drasticamente ridotta la loro autorità. Sempre più importante sul piano dell’identità collettiva diventa, allora, il ruolo della machi, protagonista nella canzone di Violeta El Guillatún.
Il guillatún è una delle più importanti cerimonie ancora oggi celebrate dalle comunità indigene. Nella cultura mapuche le donne hanno un ruolo di guida nel conservare e nel tramandare una cultura che affonda le sue radici nella natura stessa del luogo, decostruendo con istintiva semplicità un’altra delle dicotomie care alla mentalità esclusivista dell’aut/aut occidentale. Donne sono, nell’80% dei casi, le machi, che salvaguardano la salute della comunità grazie alle loro conoscenze delle proprietà terapeutiche delle piante e all’interpretazione dei segni che gli elementi naturali forniscono. Rappresentano anche il collegamento con la forza superiore, che vede ciò che sarà e che non dipende dalla volontà umana: non c’è mania di controllo. Si parte da una constatazione di umana impossibilità di dominio, che è la condizione della parità, dell’armonia. In questa canzone vediamo la relazione stretta che i Mapuche hanno con gli elementi, la centralità della voce e la fiducia nel potere performativo della parola: parole, suono ed elementi confluiscono in una straordinaria intesa, che nasce dalla concentrazione e dall’ascolto della natura.
Millelche, villaggio dell’Araucanía, è triste per il temporale che minaccia di rovinare la cerimonia. Gli indios piangono, poi si rivolgono sincretisticamente a varie divinità, cattoliche o cosmiche, tutti in piedi, anche gli infermi, battono sul kultrun, una specie di tamburo fatto con legno di alloro e cannella, il suo battito è il battito della terra e sotto la sua pelle tesa viene custodito il canto prezioso, perché curativo, della machi. Capiscono allora che devono cantare al ritmo del kultrun, mentre la machi ripete la parola “sole” col campo che la riecheggia finché “il re dei cieli” spinge i venti su un’altra regione e la cerimonia può avere inizio. Come in molti miti ancestrali, la parola ha valore performativo: fa essere.
Riprendiamo il filo della storia. Richiami all’integrazione fra l’etnia araucana e quella winka sono una tematica ricorrente tra gli artisti e intellettuali novecenteschi, ma fino al governo della Unidad Popular di Salvador Allende (1970-73) ben poco fu fatto per restituire ai Mapuche la terra che era stata loro sottratta. Sotto il suo governo il numero di tomas (riappropriazioni delle terre da parte dei nativi) aumentò notevolmente, in un’ottica di lotta di classe (proletariato rurale), non di etnie: 1700 solo nel primo anno di governo. Nel 1972 fu approvata la legge 17729 che includeva la normativa per la protezione delle terre degli indigeni e che prevedeva la creazione dell’Istituto per lo sviluppo indigeno, autorizzato a espropriare la terra di patrimoni privati a beneficio della comunità mapuche. Fra il 1972 e il settembre 1973 più di 700mila ettari furono trasferiti alle comunità. Diversamente da quanto previsto dalla legislazione precedente, la divisione della terra sarebbe stata possibile solo con il consenso del 100% dei membri della comunità. Le modalità con cui il governo di Unità Popolare di Allende trattò i Mapuche traspare dal suo programma, che prometteva “la difesa dell’integrità e dello sviluppo delle comunità indigene minacciate dall’usurpazione e la garanzia della pratica democratica, in modo che ai Mapuche e agli altri indigeni siano garantiti un territorio sufficiente, un’adeguata assistenza tecnica e un credito finanziario”. Nel 1964, quando era candidato alla presidenza, Allende aveva solennemente negoziato il Patto di Cautín, sul Cerro Ñielol, la collina cerimoniale mapuche che sovrasta Temuco, in cui riconobbe “la volontà del popolo araucano di mantenere e sviluppare tutti quegli aspetti positivi della sua cultura tradizionale che arricchiscono il bagaglio culturale della nazione cilena, quali la lingua, le leggende, le idee religiose e l’artigianato…”.
Un progetto particolarmente interessante, anche perché esempio d’integrazione fra i saperi occidentali e quelli mapuche, è il Programma di assistenza sanitaria interculturale, sostenuto da un team medico che includeva membri Mapuche nella zona di Malleco e Cautín e combinava le tecniche della medicina allopatica con elementi di quella ancestrale dei nativi, mettendo in primo piano il ruolo della machi nel processo terapeutico. La sua natura innovativa è evidente anche per il fatto che venne immediatamente percepito come potenzialmente sovversivo progressista è evidente se si considera quanto lo percepissero come pericoloso Pinochet e i suoi seguaci. Con il colpo di stato dell’11 settembre 1973 circa 40 organizzazioni mapuche vennero dichiarate fuorilegge.
Il periodo in cui Pinochet comprese che il suo potere dittatoriale non sarebbe durato a lungo coincise con la formazione di una delle più importanti organizzazioni mapuche. Alla fine del 1989 fu creato l’Aukiñ Wallmapu Ngulam (Consiglio di tutte le terre), con molto socialisti dissidenti. (102) ecc.
La lotta per l’autodeterminazione mapuche è, a tutt’oggi, fortemente criminalizzata e ostracizzata.
Ancora sul potere della parola: la poesia per la natura
Rolf Foerster, uno dei più attenti conoscitori della cultura mapuche, è convinto che i poeti radicali abbiano oggi un ruolo centrale nel rinsaldare una percezione positiva dell’identità mapuche nel complesso contesto urbano. E si torna alla profonda sacralità della parola in queste culture. In queste poesie spesso ci si scaglia contro l’inquinamento e i disastri ecologici:
Mapurbe
E io sto qui immobile
fra pewen (2) fulminati
infettandomi del cancro
che erode la terra.
E io sto qui immobile
guardando da qualche parte e da nessuna
affogando con le verità
i fantocci della diga-ttatura.
La metropoli geme;
lacrime acide
cadono dalle nere nubi
e si rapprendono nel pensiero.
La poetessa Maria Huenuñir la usa per “far prendere coscienza alle persone che fanno abusi smisurati delle risorse naturali”, per tornare a curare il cuore di Madre Terra, ferito dall’ingiustizia, da menti obnubilate che cercano solo il lucro dentro a tutta la ricchezza che la natura offre, gratuitamente”.
Poeta preferito della bravissima cantante mapuche Beatriz Pichi Malen è Elicura Chihuailaf, profondamente legato alla spiritualità del suo popolo. Dice Beatriz di lui: “ scrive dell’azzurro, il colore del mistero e della rivelazione della vita. E lo fa in versi molto concreti. La biodiversità della Madre Terra è molto presente nel suo pensiero e questo è molto mapu e molto attuale”. “Veniamo dall’azzurro”, dice Elicura, “dal mistero dell’azzurro che si crea fra la fine della notte e l’inizio del giorno. L’azzurro è il nostro colore di vita, è un fiore di cui sempre ci prendiamo cura e che annaffiamo con la parola“. La parola non si limita a riflettere ma fa ed è.
(1) Pierre Pica, facendo ricerca fra indios brasiliani munduruku, ha scoperto che, quando si entra nel mondo della scrittura, un muscolo che dà lateralità alla visione si atrofizza. Anche contare pare penalizzi il senso dell’orientamento: i munduruku contano fino a 5, per quantità superiori usano indicazioni generiche. Nel loro contesto non vi è la necessità di contare e, dice Pica, per farlo, il cervello perde altre abilità che, nel loro ambiente, sono quelle che possono salvarti la vita, come, appunto, il senso dell’orientamento.
(2) I pewen sono alberi sacri ai Mapuche.
Per la stesura di questo scritto, molto utile è stata la lettura di La lingua della terra. I Mapuche in Argentina e Cile di Leslie Ray. A Bologna lo trovate alla biblioteca del “Centro Amílcar Cabral“.