Violenza psicologica: dalla fiaba “Scarpette rosse” all’inno alla vita. Un percorso scolastico

Disegno di Arianna Darac

Questo è una sorta di “progetto occasionato” perché stava arrivando il 25 novembre e io ero in procinto di cominciare a parlare della fiaba. Ogni anno cerco di mettere l’accento su questa giornata: i diritti delle donne e l’educazione al genere sono un tema di cui mi occupo attivamente da diversi anni e tutta la mia programmazione risuona di quella che reputo una priorità urgente: raddrizzare per quel poco che mi è possibile la stortura intrinseca nei nostri canoni disciplinari, incentrati essenzialmente su voci e protagonisti maschili, portando anche il femminile in primo piano. L’incrocio della data in arrivo, col suo simbolo delle scarpe rosse, con la mia volontà di cominciare a parlare di fiabe mi ha dato l’idea: nell’interpretazione affascinante che Clarissa Pinkola Estés dà, in Donne che corrono coi lupi, dentro questa fiaba possiamo leggere la storia di una violenza psicologica. Perché?
Le scarpette rosse fatte a mano dalla “povera orfanella” protagonista sono il simbolo di qualcosa di molto prezioso per la bambina, perché rappresentano una sua creazione originale, la sua capacità di trovare il proprio talento, di tradurre il suo potenziale creativo in opera. Arriva però la vecchia signora dentro una carrozza dorata: sembra un’aiutante ma finisce per danneggiare la bambina, perché le brucia le scarpette, a suo avviso brutte e logore, senza capire quanto sono preziose per la piccola, che infatti è ora ossessionata dal loro ricordo e riesce a farsene comprare un altro paio imbrogliando la signora che ci vede male (il rosso è considerato un colore eccentrico e sconveniente). Queste scarpe “compere” rappresentano un surrogato delle scarpette che la bimba si era fabbricata con le proprie mani: la illudono di farla contenta, ma in realtà la porteranno sulla via della perdizione, perché la piccola non riuscirà più a far smettere di ballare i propri piedi e dovrà cercare un boia che glieli tagli. Questa è un’immagine della perdita dell’equilibrio nel momento in cui non siamo riconosciute nella nostra autenticità, nel momento in cui i nostri talenti e le nostre predilezioni sono snobbate o considerate inadeguate. L’autrice fa l’esempio della folgorante parabola tragica di Janis Joplin, della quale ho raccontato agli studenti la storia, partendo da una sua canzone che in effetti conoscevano tutti, perché resa di nuovo nota negli ultimi anni da una pubblicità. Era fine ottobre e due alunne mi hanno parlato di Coco, il cartone animato della Disney ambientato nel Messico del Dia de los Muertos. Una sera, durante il ponte, l’ho guardato incuriosita e nel personaggio della trisavola del protagonista che, nel regno dei morti, a un certo punto intona con voce scura il noto brano La llorona, ho riconosciuto i tratti e le frequenze gravi di Chavela Vargas. Come mai però, in un cartone che celebra nomi noti della storia messicana come Emiliano Zapata e Frida Kahlo, il nome di Chavela non veniva fatto e l’omaggio era soltanto implicito? Forse perché la sua omosessualità risulta ancora scomoda? Ho guardato un bel documentario su di lei e recuperato un libro scritto da due musicisti italiani, Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata, dove la storia dell’icona della musica popolare messicana è raccontata come un romanzo. Ho scoperto che Chavela fin da piccola sembrava un maschio e, anche per questo, i genitori non la accettavano: ogni volta che veniva qualcuno in visita la nascondevano, la piccola si sentiva sbagliata e per niente amata. Si ammalò anche e rischiò la cecità, ma una sera, disobbedendo ai genitori, si allontanò da casa e, grazie a un passante (l’aiutante delle fiabe) che la accompagnò, arrivò da uno sciamano: nella biografia, la scena è commovente perché, come in una strana agnizione, da quell’uomo Chavela per la prima volta si sente vista, si sente riconosciuta, e il curandero la guarisce. La vita non le risparmierà gli abissi, ma Chavela riuscirà a sopravvivere, salvarsi dall’alcolismo, trovare dentro di sé la forza per rinascere dopo dodici anni di assenza dalle scene messicane in cui tutti la credevano morta, e tornerà a cantare – non più nei cabaret ora, ma nei teatri di mezzo mondo – a partire dall’età di 72 anni, fin quasi alla morte, vent’anni dopo. Nel concerto inaugurale di questa sua seconda aurora, Chavela dice:

Disegno di Nogaye Sene.

“[…] fa parte della mia leggenda, eh, il coraggio di fare molte cose… Io penso che non sia né coraggio né codardia farle, [occorre] avere chiaro il [proprio] valore, e quando vai dietro alla verità, con la verità davanti a te, arrivi dove vuoi arrivare […] E amo in voi, una cosa molto importante: che non mi amate per quello che sono ma per come sono, che è ciò che io ringrazio.”

Queste parole di Chavela chiudevano il cerchio del nostro percorso: le ho fatte ascoltare e tradotte con Marcela, la nostra alunna giunta dalla Colombia meno di un anno fa, e ci abbiamo riflettuto insieme con la classe. Vedevo sguardi compresi e rapiti. La magia di queste fiabe vere che sono state le vite di Janis e Chavela, dure e profonde come le fiabe antiche, circolava in quegli sguardi: lo scatto della presa di coscienza o semplicemente la piccola scossa di un risveglio.
La proposta del concorso di UDI a cui abbiamo partecipato insieme alla collega di arte aveva come tema le scarpette rosse: volevamo a questo punto testimoniare la preziosità di ogni vita, nella sua unicità fragile e irripetibile. Questa vulnerabilità che ci accomuna è rappresentata nei cartelloni dai sottili fili di spago a cui sono appese le scarpette rosse dondolanti che le alunne e gli alunni hanno decorato a loro piacimento, ispirati anche dalle sardine della festa di Sant’Antonio, il 13 giugno nei quartieri popolari di Lisbona . I testi che campeggiano nella parte bianca sopra alle scarpe rosse sono poesie scritte dagli studenti utilizzando come testo modello l’ultima parte della canzone Princesa di De Andrè, dove, in portoghese, sono elencati 32 sostantivi che culminano nel verbo finale viver! e che pennellano tutta la vita della transessuale Fernanda Farias de Albuquerque. Un’idea che ho preso dalla collega Lucia Argentati, presentata in Che genere di scuola? una raccolta di esperienze scolastiche di educazione al genere alla quale ho partecipato anch’io con un percorso di lettura matrifocale dell’Iliade . Leggendo ognuno dei testi mi vedevo davanti la rispettiva autrice o l’autore. L’idea di abbinare queste poesie alle scarpette rosse simbolo del 25 novembre intende comunicare un’evidenza spesso oscurata dalla narrazione asettica dei media: è lo spessore di una vita, con la sua complessità e le sue contraddizioni, che ogni femminicidio spezza, è questa fragilità unica e preziosa che ogni femminicidio recide: un intero mondo si annienta. È necessario cucire nuove trame: raccontare diversamente le relazioni e i rapporti, decolonizzare la nostra cultura dal patriarcato che alimenta relazioni equivoche e sbilanciate, giustificando relazioni basate sul possesso e sulla vessazione.