“Luna nera – Le città perdute”, di Tiziana Triana
Qualche annotazione l’ho presa leggendo questo volume, il primo di quella che dovrebbe diventare una trilogia, nell’estate del 2020.
L’ho letto – come forse tante – dopo aver visto l’omonima serie su netflix, un evento atteso, per certi aspetti deludente, ma efficace nel contribuire a divulgare, anche fra le giovanissime, la presa di coscienza di un nostro trauma collettivo, la cui portata continua a essere sminuita, quindi tutt’altro che risolto. Dalla serie avevamo inteso che questa fosse la storia di Ade, in fuga col “fratellino” Valente perché accusata di aver fatto morire un neonato con un incantamento, e del suo romantico innamoramento per Pietro, giovane medico illuminato, simbolo di quella scienza che vuole abbattere la superstizione e il pregiudizio. Ma il romanzo si espande in un respiro più largo, prendendosi tutto il piacere dell’articolazione, del dettaglio, coi suoi rami secondari che si allontanano dal tronco, aprendo fronde sulle vicende di quelle donne che hanno lasciato le loro identità, decise nel patriarcato, per prendere ognuna il nome di una città perduta – Segesta, Janara, Aquileia, Persepolis, Petra, Leptis, Tebe – e che nella serie, quando ci sono, sono a malapena abbozzate.
La scrittura ci fa entrare nelle loro biografie precedenti la fuga al di fuori della società del tempo, verso quel luogo segreto e minacciato, vulnerabile e meraviglioso che sono appunto Le Città Perdute, in cui provano a costruire la loro comunità matriarcale, salvando sorelle in pericolo e proteggendosi l’una con l’altra. Sono donne-Lilith: emarginate, bandite, escluse, perché in contatto con un’autenticità indomabile, che il sistema intercetta e stigmatizza. Le donne che non temono di entrare nell’alone della luna nera, coi suoi poteri oscuri e la sua scossa anticonvenzionale. Una comunità che funziona perché è separata e protetta, intangibile al patriarcato che fuori imperversa, cieco, furioso e multiforme.