Neomaterialismo femminista fra natura e tecnologia. I soggetti nomadi di Rosi Braidotti

Sbobino questo video (non esageriamo, ve lo riassumo!) in cui Rosi Braidotti dialoga con Anna Maria Crispino.

Rosi Braidotti, foto di Patrick Post

Soggetti nomadi è un’espressione molto suggestiva coniata da Braidotti, ma anche di notevole spessore e complessità. Il rapporto col linguaggio e col simbolico è stato particolarmente importante per la sua generazione, in particolare nel contesto parigino (v. Lacan). A lei però premevano più la materia e lo spazio: il corpo. Si autodefinisce infatti “una delle nonne del neomaterialismo femminista“. Scelse dunque piuttosto le tracce della prima Irigaray e di Deleuze.

C’è stato uno sbalzo di qualità negli ultimi quarant’anni a livello di presenza femminile sulle scene. Ci siamo entrate pur rimanendone ai margini, e la marginalità è ricchezza di saperi alternativi che faticano a essere integrati e messi al centro. Dobbiamo però aspirare di andare verso il centro, abbiamo provato a farlo, anche imitando i difetti del patriarcato. Essenziale per il pensiero nomade è il movimento: puntare al centro mantenendosi in contatto con le potenzialità ubertose del margine. Non basta essere donne per portare avanti un discorso nuovo: da questo nasce il pensiero della differenza che si distacca da quello dell’eguaglianza della generazione precedente a quella di Braidotti (Simone de Beauvoir). Il femminile diffuso e variegato che lei difende ha alle spalle una drammatica storia di assenza, di vuoto, di invisibilità. Di nulla. Soggetto nomade è dunque dinamismo, molteplicità e interdisciplinarietà, interculturalità e intergenerazionalità.

Nomadismo è cosa ben diversa da relativismo: ci sono delle differenze che contano, dei valori che come femminista lei sempre ha voluto riconoscere. Non è il vuoto di valori professato dal postmoderno, ma un “troppo pieno”: a questo turgore che può togliere il fiato porta il nomadismo femminista. Se liberiamo l’energia insita nel processo del divenire, il soggetto può diventare tante opzioni diverse. I divenire sono infiniti, talora impercettibili, come la scienza e la tecnologia oggi ci dimostrano: si tratta di un processo aperto ma c’è chi, anche fra le femministe, continua a chiudere quelle porte che la sua generazione ha aperto immettendo nel sociale i concetti di libertà femminile e di divenire. In quanto processi polimorfi e molteplici, questi del divenire continuano a spaventare per l’imprevedibilità delle loro evoluzioni (a questo proposito v. anche Freya Mathews). I soggetti nomadi sono dunque soggettività politiche, non identità (che per lei è un concetto di destra). Accusare il vecchio femminismo di tutto è diventato uno dei Leimotiv imperanti oggi. Il femminismo invece è una grande accelerazione che ha permesso di spezzare tanti vincoli, ma dove conduca, in quanto divenire aperto, non lo sappiamo. Lei non crede assolutamente che il genere crei il sesso, come Butler, basta guardare la materia, la biologia dei materiali: in natura in sesso si dà. La sessualità è caratteristica della materia umana e non umana (più gay degli insetti non se ne trova, per esempio, ma il nostro antropocentrismo ci ostacola nel comprendere questa ricchezza variegata). Nelle genealogie europee questa dicotomia binaria, tra l’altro, non esiste (sesso/natura vs genere/cultura): c’è la sessualità come caratteristica della materia vivente, umana e non umana. Il femminismo questo spesso ha voluto dimenticarlo. Chi invece non se ne è dimenticato affatto è il capitalismo avanzato che della differenza sessuale ha fatto un luogo di sfruttamento e una fonte inestinguibile di guadagno.

Clarice Lispector

Il discorso interspecistico è molto attuale e interessante, allora (e ci avviciniamo pian piano a Donna Haraway). Braidotti lo affronta nel suo volume In metamorfosi. Crispino propone il “diventare blatta” di Clarice Lispector e la cito con particolare piacere perché sto leggendo Il lampadario e provo per lei molta gratitudine. Gratitudine per dove la sua scrittura è in grado di riportarmi.

Il postumano. Meglio essere cyborg che dea è un manifesto pubblicato da Haraway nel 1995, a cui Braidotti scrisse una prefazione. Era espressione dell’euforia di quegli anni per le possibilità che le tecnologie sembravano schiudere. Pareva che la tecnologia potesse liberare la donna da quel destino biologico che le era stato imposto dal patriarcato. In quel periodo, Braidotti cominciò a riflettere su come la grande vitalità del vivente si intrecci con le tecnologie che della vita fanno il loro mezzo di esistenza e di diffusione. Il postumano appare oggi invece come un territorio controverso. All’analisi di questi processi Braidotti ha dedicato i suoi ultimi vent’anni. Il capitalismo si reinventa con la fine della parità aurea imposta dagli Stati Uniti a partire dal 1971: l’economia reale si separa nettamente dall’economia finanziaria. La prima ha ancora bisogno dei corpi, la tecnologia invece è in fuga: suo obiettivo è la comprensione ma anche il controllo dei viventi: la carica informativa dei viventi – il loro codice genetico – diventa capitale. Anche nel femminismo si attua a questo punto una grande spaccatura: c’è chi, soprattutto fra gay, trans e queer, saluta con entusiasmo le tecnologie come strumento di liberazione perché ci permettono di ridisegnare i nostri corpi (dalla riproduzione assistita all’arte-manipolazione del corpo di Orlan, a Paul Preciado ecc.), e chi al contrario, fra le femministe, aborre le tecnologie e difende il diritto di essere corpo naturale. Una spaccatura che si ripropone in altri campi, esempio quello della disabilità. Ma ciò che conta è capire cosa sceglie il capitalismo avanzato, che detiene un potere enorme. Contro le scelte univoche e rischiosissime messe in atto dallo strapotere neoliberista, Braidotti ora sta lavorando alla sua critica al postumano, con le sue derive pericolose: il transumanismo è la forma dominante del postumano, occorre discutere sui modelli di cambiamento, valorizzare comunque la diversificazione perché ci si sta dirigendo a testa bassa verso un modello unico e questo preoccupa. Dovrebbe preoccupare di più. Si sta manomettendo il vivente, lo si sta capitalizzando come non si era mai visto prima e intanto il pianeta muore. Queste sono le questioni toccanti e cruciali. Benvenute le mutazioni e gli interventi sul corpo, ma nel divenire come campo aperto; mentre il capitalismo superavanzato è un sistema brutale che nega la creatività e la molteplicità immaginifica del vivente. La grande economia postmoderna, postumana e supertecnologica, che vediamo anche nell’Unione Europea, fa paura perché si impone come pensiero unico. E questo spaventa.

Nell’ambito della tristezza collettiva, del lutto portato dalla pandemia, frutto della manipolazione della vita attuata dagli umani, vediamo proprio la duplicità del tecnologico, che è tornato in campo paradossalmente come arma di salvezza, dopo aver contribuito al collasso che ha generato il Covid. Dobbiamo quindi rispettare l’esistenza delle altre specie, tenerle in vita anche con le tecnologie che possano aiutare la natura. Futuri possibili, “avveniri alternativi”. Rimettere a fuoco ciò che conta, al cuore di tutto c’è questo. Ma la tecnologia, seconda natura, deve aiutarci a salvare quell’altra prima natura che ora è così malmessa. Rosa Luxemburg aveva sentito quanto fosse pericolosa l’avidità sfrenata del capitalismo, che avrebbe fatto rientrare ogni nuovo ambito, ogni nuova scoperta in questa sua logica abominevole (e chiudo su Luxemburg, sempre attualissima).