Le Madres de Plaza de Mayo: la politica che nasce dall’amore

 

A Chiara Stanghellini,

che, non so come, era riuscita a far venire le Madres a Bologna

 

A Plaza de Mayo arriviamo camminando dalla stazione ferroviaria di Retiro il primo giorno che passiamo a Buenos Aires. Un mercoledì di fine luglio. Tutto sembra tranquillamente normale: la stranezza si dà come in un silenzio che mi si fa dentro, muta pregnanza.

Ci torno da sola un giovedì pomeriggio di pioggia. C’è il banchetto delle Madres, la loro auto. Donne di generazioni diverse, quella di mia madre o la mia o di qualche anno più giovani di me. Alcune delle anziane hanno in testa il pañuelo, il pannolino di tela con cui, molti anni fa, hanno fasciato i loro piccoli. Penso a come portare la loro storia a casa alle mie figlie.

Il 13 agosto abbiamo appuntamento per visitare l’Esma, uno dei numerosi centri di detenzione in cui, durante l’ultima dittatura militare (1976-1983) – la più feroce – sono state imprigionate clandestinamente e torturate moltissime persone poi scomparse nel nulla, ma c’è stato un allarme-bomba e hanno lucchettato tutto lo stabile per qualche ora, sospendendo l’apertura al pubblico. Ci torno la sera dopo con i miei amici a vedere Viridiana di Buñuel e due concerti jazz: un’emozione toccare con mano come un intelligente uso della memoria ha saputo trasformare questo luogo dell’orrore in uno spazio di coscientizzazione attraverso la creatività artistica.

Sfoglio il libro illustrato sulle nonne di Plaza de Mayo che la mia amica Vale mi ha consigliato per le mie figlie, Abuelas con identidad (Nonne con identità), e mi addentro nel racconto semplice e puntuale di quello a cui il coraggio e la determinazione di queste donne ha saputo dar vita a partire dalla violenza indicibile della perdita dei propri figli, desaparecidos, scomparsi, ridotti a entità fantasmatiche né morte né vive per cui anche il meccanismo della memoria ha bisogno di creare nuovi modi di relazione. Con me, in viaggio, anche un piccolo libro densissimo che ho letto l’estate scorsa e su cui da allora voglio scrivere, un libro che dell’esperienza di lotta delle Madres fa un’analisi di filosofia politica originale e documentata da diffondere il più possibile: La vida venciendo a la muerte, di Ludmila Bazzoni, argentina trasferitasi bambina a Verona, una delle fondatrici del collettivo Benazir.

Ricostruisco mentalmente l’atmosfera fibrillante dei primi anni Settanta, mentre nascevo, quando a tantissime latitudini circolava un’energia di cambiamento che si traduceva in un attivismo politico fantasiosamente condiviso. Anche in Argentina, dove vari governi autoritari si erano avvicendati al potere, molte persone cominciavano a impegnarsi. Ci si avvicinava alla politica, si cominciava ad avvertire la possibilità di partecipare alla costruzione del proprio paese, di quel contesto sociale in cui ogni unicità è libera, o meno, di prendere la forma che le sarebbe propria.

Il 20 giugno 1973, il colonnello Juan Domingo Perón fa ritorno in Argentina dopo 18 anni d’esilio. Lo accompagnano una terna di massonici tra cui il piduista Licio Gelli, che pare sostenere la necessità urgente di “un’azione concreta all’interno del governo per realizzare un’autentica pulizia” (cit. in Bazzoni, p. 24). Gli squadroni dell’Alianza Anticomunista Argentina ostentano violenza, determinati a paralizzare con il terrore qualsiasi tentativo di opposizione alla destra peronista: un gruppo armato che già prima del golpe autoritario è responsabile di qualcosa come 900 omicidi. Quando alla morte improvvisa di Perón, nel luglio ‘74, la moglie Isabel assume la carica presidenziale, i delitti politici hanno un’ulteriore impennata finché, il 24 marzo 1976, una giunta militare composta dai comandanti di Esercito, Marina e Aviazione prende il potere con un colpo di stato. Il nuovo governo mette a punto un piano che pretenderebbe di sanare i conflitti interni e risollevare il paese dalla crisi, negando, fra l’altro, il diritto di sciopero, di svolgere attività politica nelle fabbriche e nelle università. Questo regime totalizzante si basa su un’azione capillare fatta di sequestri e torture, opera di individui mascherati e armati che a bordo di vetture senza targa setacciano tutto il paese alla ricerca di presunti colpevoli.

In realtà è vero che esistevano, in quegli anni, gruppi armati che intendevano contrastare la destra ma i dati ci dicono che gli iscritti furono sempre pochissimi: non più di 1500 in tutto il paese. E questo va chiarito fin da subito. Il sistema di annientamento che crea l’orrore storico e ontologico dei desaparecidos – odioso eufemismo che di questo orrore vuole lavarsi le mani obliterando linguisticamente ogni responsabilità statale (gli “scomparsi”, quasi avessero scelto loro stessi di sparire senza lasciar detto nulla) – strinse nella sua morsa chi semplicemente rifiutava di lasciarsi vivere: bastava pochissimo per essere tacciati di sovversione ed esporsi così all’azione sconsiderata e fanatica di quelli che, a ribadire la predilezione per un linguaggio asettico e colpevolmente generico, venivano detti “grupos de tareas” (gruppi operativi), che facevano irruzione nelle case e sequestravano le persone, razziando tutto quel che potevano e abbandonando bambini piccolissimi o rapendoli a loro volta, quando non venivano loro stessi ammazzati, per poi darli in adozione a famiglie colluse col regime o che, comunque, sceglievano di non farsi troppe domande sull’origine di quei piccoli. La gente all’inizio nemmeno capiva come mai queste persone sparissero. Bastava veramente poco per essere tacciati di anti-argentinità e di “infermità sociale”: potevi aver espresso opinioni contrarie a quelle della dittatura, poteva darsi che il tuo numero comparisse sull’agenda di qualcuno che era già stato sequestrato, potevi essere iscritto a un partito. Così poco che, davanti alle prime sparizioni, per il terrore molti rinunciarono anche a chiedere spiegazioni. “Algo habrá hecho”, qualcosa avrà fatto: in tanti preferivano liquidare la questione con quel qualunquismo che ogni regime anti-democratico da sempre si preoccupa di coltivare con tutti i mezzi fra i suoi sudditi, perché è l’elemento che permette all’orrore di normalizzarsi silenziosamente fra le pieghe della quotidianità. Questo sterminio venne perpetrato con la tacita complicità delle istituzioni clericali: in seguito si seppe che alcuni sacerdoti addirittura parteciparono attivamente agli orrori commessi nei centri di detenzione. Le eccezioni in ambito cattolico furono rare, costituite soprattutto da preti che, sostenendo valori legati alla Teologia della Liberazione, si avvicinarono ai gruppi sovversivi.

Tuttavia c’è chi non si arrende a questo silenzio spaventato e omertoso: il 30 aprile 1977 un gruppo di madri che ha perso traccia dei suoi figli decide di incontrarsi nella centralissima Plaza de Mayo, davanti alla Casa Rosada, dove storicamente gli argentini hanno manifestato il loro dissenso. Dapprima si siedono ma immediatamente la polizia interviene per disperderle perché le leggi del governo autoritario vietano gli assembramenti di più di due persone (!) nei luoghi pubblici: “Circolate, circolate!”. E loro cominciano a circolare: camminano in cerchio, 14 all’inizio, poi sempre di più.

Tutti i giovedì, da più di 38 anni ormai. Continuano dopo la fine della dittatura perché ottenere giustizia sembra impossibile, soprattutto finché le vergognose leggi dell’impunità non vengono abrogate, nel 2003.

Chiedono dove sono i loro figli. Cercano i loro nipoti: alcune delle donne sequestrate e fatte sparire erano incinte o avevano bambini molto piccoli. Le abuelas vogliono sapere dove sono finiti i loro nipoti. Ai tempi della dittatura rischiavano tanto per questo: erano sorvegliate a distanza. Durante le “rondas” del giovedì gli si avvicinavano furtivamente persone che volevano aiutarle, che gli passavano dei fogliettini con informazioni “proibite” o che fornivano indizi del tipo: “C’è questa coppia che non ha mai avuto figli e ora ha un neonato con sé”. Per seguire le loro piste, le abuelas furono molto ingegnose: certune fingevano di vendere prodotti per neonati, recandosi così nelle case delle famiglie sospettate di avere bimbi sequestrati, altre, inventandosi di avere un disabile in macchina e di voler rilevare le eventuali barriere architettoniche, scattavano foto all’uscita delle scuole ai piccoli che ritenevano potessero essere i loro nipoti. Poi si incontravano cercando di dare il meno possibile nell’occhio – allo zoo, al giardino botanico, in qualche chiesa, in una delle tradizionali pasticcerie bonaerensi – e lì mettevano insieme il materiale raccolto. Avevano anche dei codici segreti per comunicare al telefono senza essere scoperte. Non pochi di questi nipoti sono stati ritrovati (nel loro sito la lista completa): alcuni si sono presentati spontaneamente per richiedere l’esame del DNA, perché in Argentina è cresciuta una generazione a cui è stato negato, dallo stato, il diritto di identità e in molti vivevano confusi o perché le famiglie con cui erano cresciuti non sapevano dargli prove tangibili, tipo foto, della loro primissima infanzia, del tempo della loro gestazione o perché si sentivano – non tutti, alcuni però sì – estranei a queste famiglie con cui si erano ritrovati a crescere, perché il governo voleva che fossero redenti, salvati dal morbo della sovversione che si riteneva avessero succhiato col latte o addirittura respirato da dentro i ventri delle loro madri.

Nella Convenzione per i Diritti del Bambino approvata dall’ONU il 20 novembre 1989 ci sono tre articoli denominati “gli articoli argentini”: sono il 7°, l’8° e l’11° e sanciscono il diritto all’identità. Le Nonne lo spiegano così: “C’è un diritto umano fondamentale: il diritto di essere noi stessi, il diritto ad avere la nostra cultura, a parlare la nostra lingua, a sviluppare la nostra spiritualità e a trasmettere tutto questo” (Abuelas con identidad, p. 36)

Ai loro figli e alle loro figlie è stato imposto un trattamento disumanizzante, la loro identità è stata annientata, è stato negato anche il diritto di sepoltura, è stata imposta un’invisibilità fisica e simbolica.

I loro figli sono stati sfigurati per divenire entità fantasmatiche che tragicamente ci interrogano.

Ludmila Bazzoni, ricollegandosi all’analisi di Hannah Arendt sui totalitarismi europei, sottolinea proprio la ricaduta immediatamente ontologica dell’orrore, la cui novità viene evidenziata dall’insufficienza simbolica della lingua che, davanti alla mostruosità, si vede costretta ad abdicare alla rappresentazione. Accettare l’ineffabilità del male non significa negare la necessità di percorrerlo, almeno ai margini, tentando ostinatamente di evocarne lo scandalo, per denunciarlo, renderlo pubblico, agire il buco dell’assenza incolmabile in una prospettiva comunitaria. La catastrofe di senso che questa frattura del linguaggio veicola diventa teatro di una rivoluzione diversa, in cui queste donne, prendendo atto di una propaganda che le vorrebbe matrici del sistema (madri-appendici) pronte a riprodurne il credo, decidono di declinare pubblicamente la loro funzione biologica, facendo irruzione sulla scena politica con modalità di comunicazione e di relazione diverse da quelle dei codici patriarcali: l’imprevisto granello di sabbia che fa stridere gli ingranaggi della colossale macchina del terrore totalitario. Improvvisano, determinate e creative, e gli avversari sono presi in contropiede. La piazza viene scelta perché favorisce lo scambio di notizie, l’intimo desiderio di contatto fisico con i figli perduti viene condiviso nell’abbraccio che la piazza permette. La poesia diventa per molte di loro lo strumento privilegiato d’espressione, con la sua lecita frammentarietà, la sua implicita accettazione che i legami logici siano recisi, col suo procedere per ridondanze e vuoti: in versi, Hebe de Bonafini, una delle fondatrici dell’associazione, ci racconta il perché della piazza, che non ha porte, e “per questo lì è tutto più chiaro”. In piazza, a viso aperto, senza né maschere né paludamenti retorici: “abbiamo convertito il dolore in lotta” (Bazzoni, cit. p. 86), facendo nascere, dalla perdita, una nuova comunità.

È a proposito di questo nesso che l’analisi di Bazzoni si fa particolarmente stimolante e preziosa: citando la matrice arendtiana, e poi ButlerCavarero e Guaraldo, l’autrice ci parla dello spaesamento che ci permette di percepire il relazionale, delle “implicazioni politiche della fragilità costitutiva” degli esseri umani. Questa ontologia del vulnus si declina nell’orizzonte della vita (pp. 92-93), sottolineando tutta la miracolosa potenza che il corpo bandito dalla polis acquista irrompendo in tutta la sua interezza nella piazza (il riferimento d’obbligo è, ovviamente, all’Antigone sofoclea). Il potere rimane sconcertato da questa creatività inattesa, da queste madri che si lasciano partorire politicamente dai loro figli scomparsi (pp. 109 e 118). “La loro esperienza insegna la relazione preziosa tra amore e politica” (p. 127) “La pulsione a mostrarsi, che coincide per Hannah Arendt con la condizione umana, è forse originata da questa forza esterna, da questa ferita, da questa apertura che eros causa nel soggetto.” Ed eros è fuori dal controllo razionale e, per questo, imprevedibile. Anche le donne argentine hanno avvertito quello slancio irriducibile. Pazze d’amore, come ha saputo così bene scrivere Cortázar.

Un amore esteso e diffuso che, sempre per suggestione arendtiana, Bazzoni definisce «amore per il mondo». E “amare il mondo significa […] far spazio all’infinitamente improbabile. O all’impossibile.” (pp. 125-126)

 

 

 

 

p.s. del 1° settembre: Valentina mi manda questo articolo di una nipote (nieta) nata nel 1978, che sua nonna, una delle Madres, ha ritrovato ieri. Qua il sito con vari racconti di ritrovamenti.