Rinascere a se stesse – L’India di Selika
Il nostro mosaico del femminile in Italia va facendosi sempre più variegato e oggi aggiungiamo un’altra tessera, così luminosa che non serve introdurla: dirà tutto da sola. Ne approfitto per ricordarvi che aspetto i vostri scritti all’indirizzo silvia@donnepensanti.net
Molti di voi so che hanno già del materiale in serbo, alcuni addirittura ultimato, ma non si decidono a mandarmelo. Vi esorto invece a farlo: sta prendendo forma una cosa bella e nessuna voce è fuori luogo, ma è questo spazio stesso a trasformarsi a ogni nuovo intervento, che non è mai univoco ma porta con sé una scia di altri sguardi e, talora, altre storie. Come un caleidoscopio: vivo e pulsante nella precarietà delle sue forme. Un arazzo i cui fili colorati si vanno annodando anche nel nostro social network, dove le discussioni, le perplessità, le presentazioni (quel che ho e anche quel che mi manca), le idee, continuano ad accavallarsi. Aspettiamo anche voi!
E ora, la parola a Selika.
Sono nata a Milano, ovvero una città piena di storia, ma volta esclusivamente al futuro e alla produzione in cui l’essere umano viene mercificato in quanto elemento produttivo della società e valutato a seconda di un reddito o del valore economico dei propri beni.
Eppure la mia famiglia è diversa. E non lo dico in quel modo leggero e un po’ sciovinista che si sente di solito. Lo dico perché ci credo.
Sono figlia di due Sannyasin, parola indiana che significa “discepolo”. I miei genitori sono discepoli di Osho.
Nella mia vita, dunque, la figura di questo uomo dalla barba lunga è sempre stata un dato di fatto un po’ come il crocifisso all’interno di quelle cattoliche. Spesso bonariamente dissacrato per renderlo accessibile a noi bambini – sono la maggiore di cinque figli – mai imposto e comunque presente.
Perciò quando mi veniva chiesto il perché o il significato del mio nome e di quello dei miei fratelli il tutto veniva ricondotto alla figura del master sino a ridurlo a una mera lezioncina imparata nel corso degli anni.
Ciò che ho sempre saputo è che tutto questo era nato con il viaggio in India di mio padre in un tempo risalente a prima della mia nascita. Viaggio che mi è stato raccontato senza censure, eppure miticizzato e lontano.
Nel Maggio di due anni fa ero in ufficio, lo stesso posto dove tutt’ora lavoro, e per curiosità e un po’ per scherzo ho cercato nei siti low cost un volo per Mumbai in previsione delle ferie.
In quel momento esatto la mia esistenza ha subìto un drastico cambiamento: il volo era economicamente accessibile!
Da quel punto in avanti c’è stato il limbo dei preparativi: passaporto, visto, bagagli, informazioni sugli alberghi, litigi con un ex fidanzato geloso e così via.
Ricordo ancora la commozione di mio padre quando mi accompagnò in aeroporto: io, sua primogenita, stavo per intraprendere lo stesso viaggio che aveva percorso lui anni prima.
Quello che ho capito nei primi due giorni in India è molto semplice: per quanto possano raccontartela, non riuscirai mai ad arrivare abbastanza preparato.
Agosto. Monsone.
Scendo dall’aereo e i miei polmoni si chiudono immediatamente a causa dell’elevato tasso di umidità. Ti sembra di respirare una spugna bagnata attraverso la quale filtri odori di incenso, fiori, spezie, cibo e merda.
Inutile condirla con belle parole.
E dopo l’impatto olfattivo mi imbatto in quello visivo e uditivo: caos. Un caos perfettamente autosufficiente fatto di persone e motori. Ogni singolo mezzo mobile ha un clacson e quel clacson viene immancabilmente suonato a tutto spiano.
Un po’ stordita per le mie nove ore in aereo con tanto di scalo nel Nord Europa e il terrore di venire derubata-rapinata-sequestrata prendo un taxi che mi porti a Puna.
E’ lì che anche il gusto ottiene il suo riscontro indiano, dato che sulla via per la città ci fermiamo a prendere un chai, ovvero il loro tè, e per la fretta di berlo col timore d’essere dimenticata in quel bar dal tassista mi ustiono del tutto la lingua. Ma anche se dolorante mi rendo conto che ormai è amore: il chai è tutt’ora la cosa che più mi manca di quel paese.
Tutto quello che viene dopo posso riassumerlo in un’unica parola. “Rivoluzione”. Di fatto non ho imparato nulla di nuovo né mi è capitato niente di eclatante, eppure per me rappresenta tutto.
Perché dopo aver passato due giorni a letto senza alzarmi neanche per andare in bagno, completamente annientata dallo shock, ho trovato la forza di reagire alla distruzione delle mie illusioni e mi sono data una seconda chance.
In primo luogo mi ero detta che tutto, compresa la storia di Osho e il sannyas, era un’immensa presa in giro. Lì non c’era niente da trovare! Ho telefonato a mio padre piangendo, volevo tornare a casa con tutta me stessa, non credevo che ce l’avrei fatta.
Invece sono rimasta e sono stata al gioco. Ed ecco, in poco tempo, la trasformazione.
Non ho volato per un continente per trovare me stessa. Non ero lì per scoprire il senso della vita. Non mi sarei illuminata né avrei trovato una comunione col mio maestro, per altro morto nel 1990.
Ho semplicemente riscoperto la genuinità dell’essere. Del mio essere.
Se sono bella non è perché ho un girovita standardizzato, l’ultimo taglio di capelli in voga o gli stivali alla moda.
Sono bella perché se sono felice sorrido e celebro la mia gioia, mentre se soffro piango e celebro anche il mio dolore.
Sono bella quando ballo perché lo faccio ad occhi chiusi per entrare dentro me stessa e i miei movimenti o a occhi aperti per abbracciare la danza degli altri e lasciarmi trasportare dal ritmo comune, anche se non sono brava a muovermi.
Sono stata bellissima quando ho amato e ho amato in modo totale perché avevo prima di tutto accettato me stessa, aprendomi interamente all’esistenza.
Non ho avuto paura di soffrire perché mi sono vissuta il momento senza un passato a cui ancorarmi o un futuro in cui sperare.
Ho capito che Osho era a tutti gli effetti, e lo è ancora adesso, il mio maestro e non solamente qualcosa che ho ricevuto dai miei genitori.
Da lì, per me, è cominciato un percorso.
Questa è stata la mia esperienza indiana. Non ho viaggiato per quello stranissimo e colorato paese, né sono entrata a fondo nella loro cultura.
Sono entrata dentro me stessa e ho accettato ciò che c’era senza giudicarlo. In India ho celebrato me stessa come essere umano.
Selika
In una società , come dici tu, volta “alla produzione in cui l’essere umano viene mercificato in quanto elemento produttivo e valutato a seconda di un reddito o del valore economico dei propri beni” è raro e prezioso fare un percorso interno come l’hai fatto tu.
Certo l’esperienza di viaggio che hai fatto ti ha aiutata e forse hai ricevuto la stessa folgorazione che ha avuto tuo padre tanti anni prima. Molti altresì, pur facendo lo stesso viaggio, non ottengono lo stesso risultato rimanendo intrappolati e spiazzati in un tempo non tempo e situazioni troppo distanti dalla realtà di questo mondo occidentale. Così come invece alcuni riescono a trovare lo stesso tuo percorso pur non facendo fisicamente viaggi dalle tinte così forti.
Complimenti per come hai descritto la tua esperienza, mi hai commosso e molto coinvolta.
Solo una parola, grazie.
Ti amo, per quello che eri, per quello che sei, per quello che diventerai
mamma
Ne parlavamo con tuo padre, sembravi proprio disperata. Dirle di tornare? Aspettiamo ancora un po’, tocca a lei fare il suo primo passo. E se non lo farà pazienza, per noi l’amore non è una cosa che si possa perfezionare. Bene.
D’improvviso tutto è cambiato, hai attraversato la strada… ora si brilla!