Invisibili mitomani, o del rimanere incinta ai tempi del precariato

Ho avuto qualche problema col computer, oltre al fatto che mi trovo in un periodo particolarmente incasinato, ma oggi ricomincio a pubblicare le poche testimonianze che ci mancano per ultimare il nostro progetto sulla narrazione dei tanti femminili annebbiati dalle rappresentazioni main stream. Dopo il successo del post di Serena sul cervello delle mamme che ha portato all’iniziativa di trasformare il curriculum europeo, che verrà lanciata ufficialmente l’8 maggio, ripresa oggi (19 aprile)anche in un bell’articolo sulla “Stampa”, torniamo a parlare di odiose discriminazioni nei confronti delle donne incinte.

Qualche anno fa, cinque giorni prima di Natale, ho scoperto di essere incinta. Anche se inequivocabili segni mi dicevano la verità, non riuscivo a vedermela davanti agli occhi sottoforma di un + tinto di rosa. Fino a un pomeriggio uggioso, con il cuore in gola. Ho lasciato passare tutte le vacanze natalizie per cercare di metabolizzare, ma dopo l’Epifania l’irreversibile ingranaggio doveva necessariamente mettersi in moto per avvisare il mondo della novità. In una sorta di stato confusionale sono riuscita a dirlo ai miei genitori e fratelli, e agli amici, certo. Poi si è aperto il buco nero del capitolo «lavoro».

La situazione, all’epoca, era la seguente: due lavori, per forza, per avere l’opzione salvagente. Il primo in un ufficio, con una sottospecie di assegno che prevedeva un monte ore annuale. Potevo gestirmele, cercando di farne il più possibile prima di restare a casa e lasciando le briciole per il dopo. Sempre assumendo che tutto andasse bene (in certi casi anche la «gravidanza a rischio» è un lusso) e presupponendo di tornare a lavorare prima dei tre mesi ordinari post-parto. Tempo con mia figlia che nessuno ci restituirà.

L’altro lavoro era in un teatro, classificata come «personale di servizio», una sottospecie di maschera con l’incarico di provvedere che i bagni del teatro, durante le rappresentazioni, rimanessero puliti. Come? Diciamo che era pulizia creativa. Il contratto non era propriamente tale, ma riuscivo a risultare comunque come dipendente stagionale e questo «privilegio» mi avrebbe permesso di ottenere la maternità obbligatoria.

Fin dall’inizio la mia ginecologa mi aveva spiegato che se svolgevo un’attività potenzialmente a contatto con sostanze nocive (organiche o inorganiche) avrei avuto diritto alla maternità anticipata come lavoratrice a rischio. A teatro, quando sono stata ricevuta dal mio superiore per la comunicazione ufficiale della gravidanza, ho sollevato questa specifica obiezione, chiedendo come avrei dovuto regolarmi con la faccenda dei bagni. Non avevo nessuna voglia né di soprassedere, né di essere accondiscendente, dati i potenziali rischi sanitari. Colto un po’ alla sprovvista, ha preso tempo. Due sere dopo mi ha fatto chiamare il medico del lavoro. Si trattava di una dottoressa e l’incontro fu davvero piacevole. Mi sono sentita trattata umanamente, mi ha parlato con la complicità femminile che spesso subentra in questi casi, come chi sa come ci si sente quando si aspetta il primo figlio. Mi ha detto che non potevo assolutamente continuare a lavorare, a stare in piedi sui tacchi per tutto quel tempo, che il mio era un lavoro usurante, e serale per giunta, che i bambini sono una cosa meravigliosa, diventare madre è una cosa meravigliosa, e via di seguito.

Sinceramente meravigliata, ho raccontato tutto ai miei colleghi con un certo sgomento. Caspita, c’è ancora qualcuno in questo Paese che rispetta i diritti, ho detto, non mi aspettavo certo questo trattamento. Chapeau!

Ma poi è successo qualcosa.

Una mattina mi ha chiamato al lavoro (l’altro) un’impiegata dell’ufficio personale del teatro, farfugliando confusamente che, insomma, non era più così che stavano le cose, che la dottoressa non voleva dire quello che aveva detto e che c’era stato un equivoco.

Un equivoco. Ho timidamente protestato, già un po’ seccata. Evidentemente imbarazzata (perché, come al solito, per fare le cose più spiacevoli si manda avanti chi non è titolato, né preparato a farle) mi ha detto che mi avrebbe richiamato il direttore del personale. E infatti la telefonata, poco dopo, è arrivata. Mellifluo come un gatto ruffiano, mi ha detto, testualmente, «vede signorina, signora, lei ha capito male, la dottoressa non ha detto quello che lei sostiene. La maternità anticipata, infatti, non è prevista per il personale di servizio, ma solo per le maschere».

Peccato che le maschere fossero tutti uomini.

Sono rimasta senza parole, ero incredula. Senza alcun ritegno, questo signore ha cercato di convincermi a) che non avevo sentito quello che avevo sentito dalla bocca della dottoressa del lavoro, cioè un ufficiale sanitario b) che non facevo quello che avevo sempre fatto, ossia stare in piedi come tutti gli altri miei colleghi (ma sui tacchi) e cancellare i segni (di qualsiasi cosa si trattasse) del passaggio altrui dai bagni, senza mezzi adeguati, per farli sembrare puliti: «lei non pulisce i bagni, glielo dico io» (sic!).

È stata una delle umiliazioni più pesanti che abbia mai subito. Un uomo adulto, con enormi responsabilità sulle persone, che non può o non vuole riconoscere un palese e madornale errore e allora pensa bene di convincermi, con fare paternalistico, che non so quello che dico, quello che ho sentito e quello che ho sempre fatto.

Ho cercato di scrivere alla dottoressa per richiamarla alle sue responsabilità professionali e lei si è dimostrata un’ostinata mistificatrice, fino a smettere di rispondere alle mie domande. Alla fine ho deciso di parlare con un avvocato, esperto in cause sul lavoro, il quale mi ha chiaramente detto che se la mia attività sulla carta risultava diversa da quella reale, senza la testimonianza dei miei colleghi non avrei ottenuto un bel niente. Colleghi che, ai miei racconti, non si erano mostrati propriamente solidali.

Non ho potuto fare altro che rimanere a lavorare fino all’inizio della maternità obbligatoria, riducendo progressivamente i giorni di servizio, e conseguentemente lo stipendio. E dato che al momento è l’unico lavoro che mi resta, speriamo ora del prossimo figlio di averlo ancora.

C.

Dipinto di Bruna Verrecchia Verdone, Il gioco di Alice