Figlie sconosciute

Riflessioni densissime quelle che ci ha spedito Katia, che troverete in versione integrale nella versione cartacea che stiamo approntando (vi faremo sapere tutto al più presto!). Qui ho fatto alcuni, discreti, tagli, concordati con l’autrice e sempre segnalati. State bene.

La vita che ti fa da maestro è una menzogna ideologica in un tempo di antimaestri, la vita non insegna se

non si fa carne di mentore, di strega, stregone, di responsabile figura presente. Ci sono maestri assenti o

troppo presenti e, come sempre, gli assenti sono i troppo presenti.

Raccontare da donna è sempre un aver sostato a lungo da qualche parte, aver parlato del nulla col nulla,

aver trovato la fertilità in un momento morto. A me è sconosciuta la coerenza narrativa degli uomini, la

parabola lineare dei loro racconti, mascherata da una complessità eccitante. Naturalmente la invidio, ma

soprattutto no. Mi piace l’incompiutezza, mi appartiene come tratto femmineo. Perciò mi son messa a

scrivere una cosa che, per definizione, ogni volta che la guardo la scriverei diversa.

Anche gli uomini abitano l’incompiutezza con geniale estremismo poetico, anche se questo li conduce

sovente o a sentirsi figli di un dio minore (non abbastanza maschi, e dunque in colpa, perché dentro di loro

abita anche l’inclinazione a non concludere, a non produrre, a non risolvere, a non sistematizzare, a non

compiere, senza tuttavia esplorarne l’ambivalenza), oppure ad esibire il sé di genere come superiorità. Una

certa incompiutezza come valore maschile popola infatti da sempre sia la produzione creativa (“il genio”

nelle produzioni industriali e scientifiche) sia le espressioni positive delle follia (produzione artistica). Tuttavia

credo che una questione superpartes si ponga inevitabilmente perché le forme del potere che dettano la

grammatica della vita sociale, politica, economica, culturale e scientifica sono da sempre quelle afferenti ai

concetti di conquista, cattura e predazione delle cose del mondo, che è poi l’ordine antifemmineo per

definizione.

A partire dalle loro diversità tuttavia, donne e uomini moltiplicano nel mondo movimenti tesi ad esplorare

forme inedite di convivenza con la vita. Ed è precisamente questa la questione superpartes che si pone

poiché dalla lamentazione all’impegno il passo non è breve.

Nel nostro Paese tutto ciò esiste ma la figura che emerge dallo sfondo di esperienze interessanti (e

marginali) è di ben altro tipo.

La pratica (sì, la pratica), che assegna alle donne un corpo “liofilizzato” da poter preparare, pronto all’uso in

caso di bisogno, ha probabilmente le radici banali del disimpegno anche se produce linguaggi complessi.

Non si tratta solo di corpo, ma dei ruoli che si vorrebbero abitati in quel corpo dunque il denominatore

comune è cosa vuole il pensiero maschile. Il problema, a volte, pare essere “in che modo” le donne

rispondono a quel volere. Un problema serio, ma la questione così posta è scivolosa perché in questa

Gestalt reattiva la risposta delle donne resta funzione di un gesto inaugurato da altri.

Come sappiamo da tempo, né l’asservimento, né la ribellione né la lamentazione sono risposte nuove

perché stanno nell’ordine della dipendenza sempre e comunque.

Quale direzione intende prendere oggi il dialogo tra maschile e femminile nella prospettiva della differenza

pare essere una domanda confusa. Ma potremmo insistere sull’ordine pedagogico o auto-educativo come

dato antropologico. La domanda non è mai chi siamo o cosa siamo state/i ma cosa vogliamo essere.

Perché un ordine di questo tipo possa esistere credo che alle donne spetti una fatica ineludibile: non

solamente uscire dalla gabbia adolescenziale e a-storica della “ribellione” ma soprattutto recuperare

l’autorevolezza necessaria per (tornare ad) insegnare al mondo, ai nostri figli, l’incompiutezza, la fluidità,

l’ulteriorità mistreriosa come dimensioni costitutive e ormai smarrite del desiderio, che è poi potenziale

creativo e modificazione del mondo. È tema antico, qualcuno dirà, ed vero, ma ogni tempo è nuovo.

Con questo patrimonio istintivo ma non abbastanza detto e nominato, diventa forse più immediato

reinterrogare il maschile.

Non abbiamo autorevolezza perché abbiamo un problema con l’autorevolezza e la ribellione non è

autorevolezza.

[…]

Scrivere è dunque un modo per forzarmi a respirare un po’ meglio, a pensare quale aderenza ci sia tra i

miei bisogni e quelli degli altri. Niente di nuovo, noi donne ce lo domandiamo in continuazione. Ma siamo

maledettamente ambigue nei confronti del bisogno di “stare”nelle relazioni (tematizzando la funzione tempolentezza),

di facilitarle, nutrirle, e nello stesso tempo di non vivere in funzione dei bisogni altrui.

Stiamo in questa forma di smarrimento che produce frustrazione ma porta contemporaneamente il

“vantaggio” di stare a galla. Se questo è il prodotto storico che “siamo”, probabilmente questa è anche la

nostra difficoltà ad interrogarlo .

Anche per noi dunque e non solo per gli uomini, si tratta di una ambiguità che ci abita come grande rimosso:

cosa vogliamo? Che tipo di capacità di mediazione abbiamo costruito storicamente ? E in questa mediazione

cosa c’è di veramente nostro?

Proporre soluzioni possibili in tempi di reificazione mediatica non solo del nostro corpo ma del nostro essere

l’altro polo di una diversità in gran parte ancora tutta da dire, significa assumersi il peso di una decisione; ad

esempio, la soluzione suggerita dal pensiero della differenza del tornare a connettersi con le proprie madri

non significava tornare ad amarle per forza, ma legittimare uno statuto di femminilità, di specifica

autorevolezza per il fatto di esserci e di insegnare qualcosa a qualcuno.

Insisto nell’ipotesi educativa per abbandonarci ad una cifra profondamente nostra, per lasciarci educare da

altre donne attraverso la contaminazione, per tematizzare la paura della dipendenza, per abitare azioni

differenti dalla lamentazione cui siamo abituate.

È pur vero che in questo Paese è una vera e propria sfida andare a cercarsi modelli di riferimento diversi

dalla showgirl, anche alla luce del fatto che pure la donna politica viene presto zittita come più bella che

intelligente, ma la sfida vale la pena di essere compiuta, magari prendendo a modello noi stesse e i nostri

“bisogni non-ancora” (detti,agiti). Diversamente, saremo costrette o al linguaggio del risentimento muto o a

quello dell’odio.

L’ipotesi educativa può far approdare ad esiti differenti: credo che il limite di certo pensiero femminile sia

quello di nutrirsi più di latitanza che di presenza quando al pensiero si chiede di calarsi nell’azione, nella vita,

nel quotidiano di tutte le donne: stanare donne non è la stessa cosa del parlare di donne.

C’è dunque il problema tutto nostro della latitanza che ritorna se da questa latitanza passa la nostra

clamorosa assenza da noi stesse. Nel lavoro, nella politica, negli affetti noi “dichiariamo” molto, ma

produciamo poco. In questo modo, il legame femmineo con la connessione e per la connessione, la

relazione e la non violenza resteranno pur sempre azioni, ma azioni mute.

Da quanto tempo siamo consapevoli che il religere, il fare relazione, non coincide con l’oblatività che ci è

stata insegnata? Da molto tempo. Ma ci è ancora difficile denudare (sino al viverli diversi), il rapporto con

quei ruoli dell’oblatività vissuti, inevitabilmente, con conflittualità e ambivalenza.

Le figlie sconosciute siamo noi allo specchio, conosciute quel tanto che basta per non renderci ulteriormente

sconosciute a noi stesse. L’ altrove è già presente, già immaginato, occorre nominarlo.

Noi nasciamo oggi. Dalle nostre maternità nasciamo tra pensiero differente e articolazioni di nuove

interdipendenze con sguardo lucido sulle dipendenze di sempre.

Ipotizzo che nulla di nuovo potrà accadere se il pensiero femminile non sarà disposto a reclinare lo sguardo

dentro a un momento di vertigine e di silenzio, con un gesto preciso di ripudio del rumore.

A recuperare l’ossimoro che fa del silenzio parola, a contattare il grido, la rabbia, il riscatto, la lucidità, la

miseria, il potere di rendere dicibili le cose.

Intanto ci muoviamo dentro una soglia fatta di presenza e di desiderio.

Sappiamo che dentro al mito capitalistico del potere egoico e fagocitate nel mito bulimico del denaro come

unico generatore di significato ogni discorso fa rumore perché è nel rumore che si coltiva la sordità del

consenso.

Il silenzio da ritrovare, lo sappiamo, è fatto di altra pasta, di mani e di sguardi, di corpo: lo sguardo che

contatta sé stesso è gesto radicale e necessario.

C’è tutta una pedagogia, tutt’altro che esclusivamente femminile, che richiama alla necessità di collocarsi nel

mondo con sensibilità femminea. Che poi significa guardare alla costruzione dei soggetti che siamo a partire

dagli interstizi e dai recessi contro l’idea del tutto visibile, luminoso, monumentale, mostrabile, s-pudorabile.

Si tratta di una pedagogia antieroica, e molto potente.

[…]

In mezzo al rumore, credo che uno dei nostri movimenti mancanti sia quello della deflessione, del collocarsi

in basso ad ascoltare le cose.

Accogliere lo smarrimento che la deflessione procura è tratto femmineo, concime femmineo, occorre non

averne paura.

Nella mia esperienza personale ho trovato più volte il femmineo dentro il silenzio, “sosta di contatto” con

cose sepolte e non evidenti.

Tutte siamo diverse, dunque la questione in gioco è quel che ognuna può insegnare ad un’altra.

Io posso insegnare il piacere di questo non-movimento che dà avvio al movimento, e voglio imparare da chi

il movimento lo comincia altrove.

Interpreto così l’azione del farsi PRESENTI.

È la metafora gestaltica, il “tutto intero” differenziandosi, al di qua del discorso linguistico, lineare e letterale

sull’essere donne.

C’è un tipo particolare di consapevolezza che caratterizza e definisce la nostra presenza-assenza nel mondo

e quanto più è nitida quanto più ci fa paura se è vero come è vero che la paura è l’altra faccia

dell’eccitazione.

Può essere non soltanto fatica “portar fuori” la dimensione “tempo”: tempo storico, tempo interiore, tempo

nostro, tempo degli altri. Può essere gesto gioioso, radicale e preciso

Non essere complici di chi il tempo ce lo sottrae è un modo per prenderci la responsabilità di non sottrarlo a

noi stesse.

(tratto da L’altra Guancia, quasi un’autobiografia tra narrazione e terzi luoghi)

Katia Cazzolaro