Gestazione dell'addio

Stavo per pubblicare la poesia di Lucianna senza nessuna premessa, perché ogni parola ha qui un suo peso e merita tempo per essere intesa, richiede meditazione e silenzio, mi sembrava di infrangere un equilibrio prezioso e precario. Però voglio tornare per un attimo ai nostri intenti, quando abbiamo deciso di cominciare a raccogliere testi su questo blog, testi che già hanno cominciato a bucare timidamente la rete lasciando segni importanti, nelle letture che stiamo e stanno facendo in giro per il paese. Il nostro intento era quello di dare voce ai molteplici femminili zittiti dalle rappresentazioni egemoni, proponendo così il nostro piccolo sentito contributo, per dire  basta alle omologazioni e agli appiattimenti, al corpo – luogo denso di configurazioni identitarie spesse e variegate – come merce, al corpo fatto a pezzi dai mass media e venduto come carne da macello, spogliato del suo mistero e delle sue potenzialità. Voglio sottolineare come questo depauperamento del corpo femminile, questa svendita, naturalizzi una percezione delle donne come non-persone che ha gravi ripercussioni sulla loro stessa incolumità, sul rispetto di loro come persone. Smembrare le donne in pezzi di carne significa renderle meno persone e quindi più inermi, più esposte alla violenza. Non è un nesso evidente, per cui valeva la pena di soffermarci a renderlo esplicito. Vi lascio alla lettura di questa poesia, con tutta la potenza delle sue parole  e dei suoi silenzi.

a Valentina C.

Trovarla nella caduta perpendicolare

della luce la parola giusta

che mi raschi dalla pelle tutto il male,

che mi scavi le ossa e mi faccia cava

per galleggiare almeno in quest’aria

che non riesco più a respirare.

Trovarla negli otto minuti di travaglio

dell’aurora ora che sto come il cielo

dismesso dalle rondini,

l’ombra dimenticata dalla luce,

le lenzuola sui davanzali, al mattino,

prostrate in un rigurgito di buio. (a vomitare la notte)

Trovarla la parola giusta e difficile

ora che il mondo è tutto e solo visibile,

la parola che è segreto e mistero di te ed io,

quella che dice l’amore

quella che m’è rimasta dentro muta

perché non ho più un te

e nemmeno un io e sono metallo gelido

campana che suona

tamburo che rimbomba.

Non sanno che non è solo il corpo

che m’ hanno profanato

ma tutta tutta intera la vita

che il corpo

ricco di messi e bello lo sentivo

e ora non è più mio e mi sta addosso

come guerra, come piazza di mercato

dopo un attentato.

Corpo estirpato

corpo incolto,

concesso alla mancanza

e se Dio esiste

in me non sento più il suo alito

e sono polvere

alla polvere già ritornata.

Orrore e scempio di me

in quell’ora che eccedeva e

cadeva a capofitto nella colpa

di essere stata vittima per caso,

per nascita, per genere

che io o un’altra era lo stesso.

Che forse quel giorno un segno c’era stato

ma non l’ho saputo interpretare

né serbo nulla come se mai l’avessi vissuto

né fosse stata mai la vita, prima.

C’è quella notte che era bella

sì le stelle quelle le ricordo

anche se poi ho chiuso gli occhi

li ho chiusi forte troppo forte forse

perché è sceso fitto il nero

e m’è rimasto dentro, non è più andato via

e la terra s’è aperta e sono sprofondata.

Proserpina rapita e risputata

in un tempo tumefatto

fatta arco di vertebre

inarcata tra le tenebre e la luce

sopra un vuoto sotto cui scorre

il nostro stare separati e contigui.

Negata al senso e alla pietà

non so di me altro che questo io slegato

questo volto che non riesco più a guardare.

Non mi sono mai saputa immaginare

diversa o altra da ciò che ero e ora non mi riconosco,

non l’ho saputo per questo non mi perdono

né perdono loro che perdono non me l’hanno chiesto

Opaca di tristezza

scollata dalla vita

non riconosco più la bellezza

né voce alcuna che non sia

questa che dentro mi bastona.

Avevo un orizzonte prima

avevo una lingua

ora mi possiede il gergo amaro del dolore

impuro di disperazione

e condanna a un nuovo idioma

che non m’ accoglie

al pieno senso delle cose

e della vita sono persa ai sensi e alla ragione.

Ora è solo dubbio, assenza

è povertà di linfa

avvizzita nell’inesistenza.

Io nel danno biologico nel danno esistenziale

mescolata d’ossa, di muscoli,

di bile e cartilagini,

di tendini tagliati

io senza più corsa,

caduta dalla tasca del tempo

che è di natura diversa da noi.

Da me disincarnata

come qualcosa di ammutolito

che non torna a farsi suono, parola

ma annega e si rinnega

tradito da se stesso.

Io fatta paura e di nulla più misura

che in me tutto inciampa

tutto ciò che è misero

e tutto ciò che è nobile.

Le mani sono campi incolti

cancellate le linee e i solchi

anche il raro sorridere è stato come il vento

quando increspa l’acqua immobile di un lago.

Ormai la falla s’era aperta

e a poco a poco m’è scivolata via

tutta la vita.

Io mai guarita,

senza più speranza, né bene,

io senza cura,

senza più radici

che ad una ad una le ho ritirate in me.

La nascita è distacco,

la vita un maldestro rammendo

ma questo nuovo strappo

con che lo posso ricucire?

Ora che è solo buio da buio

silenzio da silenzio

e non c’è materia più duratura

delle parole: rifarsi una vita

per rifarsi una vita

se senza progetto, senza strumenti

stanno le mie nude mani

di metacarpi e falangi

incapaci e inerti, della stessa sostanza

dell’acqua e del vento,

dei battiti del cuore in esaurimento.

Così non sono vile

se è da tanto che penso di restituirla

perché grazie non fa più per me (né io per lei)

è altro ciò di cui ho bisogno

e non è di qui e non ha preghiera.

È altro e altrove:

paese ignoto, nostalgia di strade

da percorrere senza corpo.

Cupio dissolvi

partenza irregolare

parvenza in dissolvenza

in restrizione di confine e di stupore,

in calo di spazio e di respiro.

A poco a poco ho scavato un varco

nelle mura di questa prigione

con un cucchiaio sottratto

alla mensa dei vivi,

palmo d’acciaio su cui ho navigato

lontano dal mio futuro.

Tutto, senza amore, si fa lontano

e invivibile, tutto è guerra

e odora di finitudine.

Non si cammina verticalmente

allora verticale voglio almeno la mia morte.

Oltrepasso il dubbio

raccolgo il tempo mietuto

stacco i piedi da terra e dondolo

motum

pensilem

amant

al ritmo spezzato del fiato:

altalena naviglio che conduce al cielo

rito propizio al rinnovarmi altrove a nuova infanzia.

Culla, dondolio e ninna nanna al mio sonno d’addio

ai lombi tesi al balzo, alla spinta.

Perdono chiedo a questa fune

alle sue fibre vegetali strette strette

legate per legare ne snaturo l’uso

me ne orno per slegarmi

ne faccio scandalo

e inciampo nella mia fine

nel cambio della vocale dell’ignoto

e non c’è riparo a questo né riparazione.

Segni fragili siamo vulnerabili

e per questo belli nati e chiamati a vivere la bellezza

ma troppa è la carne da attraversare

troppo lo sforzo nel mistero da avverare

di Lucifero che torna angelo

così la mia morte sia un muricciolo

di pietre bianche nelle cui fessure

e piantine e lucertole trovino riparo

e le creature umane un poco d’ombra e di ristoro

e il vento ne faccia strumento

per un nuovo canto.

Lucianna

Dipinto di Carol Rama, “Appassionata”