Riprendiamoci la parola!

La riflessione, fitta di riferimenti interessantissimi, che Elisabetta Pierri ha fatto sull’importanza di usare le parole con coscienza e cognizione di causa  mi stimola a riprendere alcune mie considerazioni già esposte in pubblico durante la serata che abbiamo organizzato qua a Bologna l’8 marzo scorso.

Esiste un nesso sottile, non diretto ma ineludibile, tra violenza simbolica e violenza reale: le rappresentazioni della donna da cui siamo tempestati contribuiscono al configurarsi di sensibilità sempre meno sensibili, sempre meno capaci, cioè, anche solo di rendersi conto dell’ingiustizia e del sopruso. Queste rappresentazioni agiscono molto spesso in maniera insidiosa e finiscono per far passare sotto la soglia della normalità discriminazioni gravi, ottundendo la nostra capacità di rilevarle come tali.

Se parliamo di rappresentazioni pensiamo automaticamente alle immagini visive che avviluppano con la loro monotona ossessività il nostro quotidiano, ormai sempre più degradato, ma esiste una violenza più surrettizia da cui, sempre più spesso, dimentichiamo di guardarci: quella, appunto, del linguaggio verbale. Prendere coscienza delle meccanizzazioni di cui il nostro sguardo sul mondo è vittima e complice mi sembra un modo sensato per innescare un processo di liberazione collettiva, che parte, nel nostro caso, da quell’emancipazione che andrebbe rimessa al mondo ogni giorno, per propagarsi su scala più ampia nella società in conclamatissima crisi dove ci siamo ritrovati a vivere. Siamo convinte che problematizzare la percezione della realtà, mettendo in discussione le rappresentazioni stereotipate, individuando modalità discriminanti anche laddove prevale la tendenza a minimizzarle, analizzando dinamiche relazionali date per inevitabili, tentando di decostruire i congegni, anche quelli più occulti, che stanno alla base dell’esercizio del potere, sia un’operazione politica che favorisca quella che Paulo Freire, nella Pedagogia degli oppressi, ha chiamato “coscientizzazione individuale“, e sia la premessa necessaria per trasformare la nostra “democrazia a bassa intensità”, i cui meccanismi di rappresentanza sono sempre più opachi e inficiati da un sistema massmediatico insofferente alle regolamentazioni, in una “ad alta intensità”, come auspica Boaventura de Sousa Santos.

La formazione di individui consapevoli è fondamentale perché la società civile, nel suo complesso, progredisca: prendere atto della violenza che il potere, attraverso i media,  esercita sul e attraverso il linguaggio, a suon di eufemismi, studiate iperboli, sensi capovolti, concetti sviliti, contenuti svuotati, è un passo fondamentale di questa presa di coscienza. “La menzogna”, scrive Vladimiro Giacché nel suo La fabbrica del falso, “è il grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo”, “il terreno principale su cui oggi viene combattuta la guerra contro la verità è quello del linguaggio […] il potere delle parole risulta decisivo per la costruzione del consenso” : grazie a “un sofisticato e potente apparato che confeziona e smercia la menzogna, così come si smercia un qualsiasi altro prodotto” la verità viene mutilata, lasciata cadere in oblio, dimenticata, sovraesposta fino a risultare surreale, capovolta o semplicemente elusa.

Esistono strategie di resistenza per sottrarsi alla collusione con questa infernale macchina della menzogna. Scrive  Brigitte Gresy nel suo Breve trattato sul sessismo ordinario:

Per stanare il sessismo, dobbiamo cambiare registro rispetto alle leggi, alle politiche e alle azioni sul campo, per quanto indispensabili esse siano. Bisogna che ogni donna e ogni uomo prendano coscienza del ruolo che giocano e abbiano cura di ripulirsi la testa da tutta quella polvere di rappresentazioni tossiche.

Mi preme sottolineare come, in questa prospettiva, tutto debba partire dall’individuo, dal singolo quindi, ma un individuo che non è quello disgregato che serve e fa il gioco del capitalismo post-industriale con tutte le sue derive di abbrutimento, spersonalizzazione, livellamento verso il basso dei saperi e del sentire, ma un individuo transitivo, che viva in sé, insieme, la propria unicità e il proprio senso di appartenenza alla comunità-mondo, la propria singolarità e la propria umanità. Sempre più soggetti del complesso movimento che oggi agisce per reinventarsi l’emancipazione stanno sottolineando l’importanza di ritrovare una lingua vera, perché, come ben scriveva il già citato Paulo Freire, “non esiste parola autentica che non sia prassi. Quindi, pronunciare la parola autentica significa trasformare il mondo”, per tentare di contrastare con la bellezza e la coscienza del dire una lingua sempre più alienata e alienante.

Clarissa Pinkola Estés, analizzando la fiaba di Barbablù nel suo Donne che corrono coi lupi,  osserva come nei misteri eleusini la chiave fosse “nascosta sotto la lingua, a significare che il nodo (…), l’indizio, la traccia si trovano in un insieme di parole, di domande-chiave“. Il linguaggio è centrale, riscoprirne e ribadirne la pregnanza, la sua capacità di partorire trasformazione e cambiamento, continua a sembrarmi importantissimo.

Così, oltre a costituire una sorta di osservatorio militante sui media e sulla realtà circostante, teso a decostruire quei meccanismi di sopruso e sopraffazione sempre più silenti e surrettizi, quello che Donne Pensanti tenta di fare, insieme ad altri gruppi e singole persone con cui la nostra associazione va intessendo la sua rete, è di mettere in atto strategie di resistenza, promuovendo diversità e un concetto più multiforme e pieno di bellezza, attraverso un uso creativo di immagini e parole capaci di assaltare la realtà contraffatta che inquina il nostro sentire, omologa le nostre individualità, lasciandoci sempre più insoddisfatti e defraudati.