VEGLIA, di Anna Maria Civico

VEGLIA

una città, 14, marzo, 2020

 

Quando in paese moriva qualcuno tutti e tutte facevano silenzio. Si passava parola. Si sentivano le campane. Si sentiva avanzare il silenzio. Si veniva a saperlo. Si usavano gli oggetti con moderazione, posandoli lievemente. Persino il fabbro lasciava cadere il martello del suo solo peso, senza aggiungere quello del braccio. Era un po’ come provare a morire tutte e tutti. Avvicinarsi a ciò che attraversava la persona morta. Ci si aspettava, forse, che ci dicesse qualcosa di quel passaggio. Si aspettava per vedere se era vero. Se sarebbe tornata/o indietro. Si entrava in un’attesa. Anche chi era solo un conoscente dei parenti del morto, faceva suo quel silenzio. Tutti verso lo stesso centro. Il tempo lo si lasciava andare. Se qualcosa doveva arrivare non era da fuori. Era dentro e non erano pensieri, non respiro, non battito del cuore. Eppure era quello che restava: battito del cuore, una mente arresa e sgomenta, le onde del respiro. Si facevano solo le cose che si dovevano fare. Raccogliere, preparare il cibo, sistemare le case, accudire bambine e bambini. Accudire nonne e nonni. Accudire gli animali domestici e gli orti. Pascolare il gregge. Filare, tessere. Aggiustare tavoli e sedie. Creare ceste. Mattoni e pentole di terracotta o di latta. Spostare cose. Tutto con moderazione e attenzione verso lo stesso centro di attrazione. Che i suoni e i movimenti non fossero troppo forti, soprattutto in prossimità della casa del morto o della morta. Le feste erano sospese. Persino alle bambine e ai bambini si dicevano cose. Alcune porte di casa rimanevano spalancate. I vicini aiutavano la famiglia in cose pratiche e domestiche. I passi erano misurati.

 

Tutto questo è così cambiato, per non dire, rimosso. Il morto è solo questione della famiglia o della persona più vicina. Tanto viene assorbito dalle questioni amministrative. Tutto intorno ci domanda di dimenticare e tornare al più presto alla socialità. Alla normalità. Il silenzio creatosi intorno e dentro di noi, svanisce e viene per di più annullato. Le porte aperte, dal dolore, dentro di noi, vengono richiuse. Le sorprese che avremmo potuto trovare, in quelle stanze sconosciute, non abbiamo avuto il tempo di avvicinare. Quando in paese moriva qualcuno si faceva la veglia, che poteva durare alcuni giorni. Si potevano aprire le porte, andare di stanza in stanza. Ci si entrava dal soli/e. Tutto il paese sapeva. Non tutti potevano entrare nelle stanze sconosciute. Qualcuno poteva rimanere soltanto sulla soglia. Qualcun’altra/o attraversava stanze come un reame. Come un bosco. Come infinite caverne. C’era tecnica per entrare e per ritornare. Chi non sapeva la tecnica non ostacolava il viaggio delle/degli altre/i. Partecipava con il silenzio. Chi utilizzava la tecnica sapeva canti, sapeva parole. O le sapeva creare. Le sapeva dire. Articolare con ritmo e melopea. Entrando in un processo ricorsivo delle strofe e del tempo. Delle vocali e del respiro. Fare canto. Fare movimento, lento o veloce. Ma preciso. Fare un segno, che dava senso nuovo al gesto, preso dalla quotidianità.

 

E’ sorprendente come nella cultura del paese, dove tutto era basato sull’oralità, si sapessero certe cose. Ora, che anche chi abita in paese sembra abiti in una grande città, abbiamo perso il senso profondo e misterioso, che si manifesterebbe anche a noi, del silenzio di una comunità in lutto. Ora, mi fermo, come tutte e tutti noi in queste settimane, giorni, ore, attimi. Non è facile fermarsi. Si perde la continuità con il camminare. Si perde il lavoro. Chi come me, ha un lavoro, quasi, a cottimo. Guadagna se lavora, altrimenti, no. Punto. Come me, tanti autonomi e artiste e artisti. Artigiane e artigiani. Il lavoro artistico in particolare, nonostante la forma di impresa che deve assumere e nonostante il digitale, sembra avere una relazione con quelle forme di conoscenza per accedere alle stanze aperte durante la veglia. Le tecniche che ci permettono di non smarrirci nei meandri. Di essere ancorati/e al presente ed alla terra. Non è facile fermarsi. Neanche per me/noi che sappiamo le necessità fisiche della corporeità. Gli altri nutrimenti di cui ha bisogno il corpo. Il movimento, lo spazio. Tanto spazio. Penso a quelle danzatrici e danzatori che in questo momento avranno pochi metri quadri a disposizione per i loro allenamenti. Ma si può fare. Lo so per certo. Lo so perché è la pratica che ci connette. Il senso pratico acquisito.

Qualcuno si ammala. Qualcuno perde la vita. Molte persone lavorano in turni pazzeschi e fanno da filtro tra i malati e le cittadine e i cittadini. Quale solidarietà dai Paesi confinanti. Dall’unione tra stati vicini. L’esercitazione militare Defence Europe 2020, proprio in questi giorni. Tante sono le notizie cattive tutte insieme. E noi in casa. Cercando di fare la nostra parte nel tentativo di rallentare il contagio del virus. Ci affidiamo alla scienza e al governo. Non c’è tempo per strategie più ponderate. Il virus si muove veloce. Stiamo a casa, qualcuno fatica a prendere sul serio il divieto di uscire. Poiché è vietata una libertà fondativa, che è quella di camminare. Non tutti/e lo vediamo. Non si vuole rinunciare alle abitudini sociali. Alle abitudini al consumo. Le nostre abitudini sono ambigue, tra il dono di sé e lo scambio di merci. Stiamo vivendo una situazione che mina le fondamenta della nostra vita, e lo status sociale non è più un confine di protezione. La nostra idea di confine, come certezza protezionista, crolla. E nello stesso tempo è proprio nell’autoconfinamento che, speriamo, di controllare la malattia. Un confine estremo che siamo chiamate/i ad esercitare. Una condizione che soltanto durante l’ultima guerra, i nostri parenti, hanno sperimentato. Difficile, ora, in questo contemporaneo, da praticare. Così, da un giorno all’altro.

Il nostro riferimento (economico, culturale, sociale) non è più il paese e i vicini di casa. Con la rete fra noi, qual è il nostro paese? I nostri legami sono diffusi. Da ognuno a più altrove. Piuttosto che qui ed ora. Modi di relazionarsi che già da tempo non hanno più bisogno della presenza. Dove merci, affetti e luoghi sono contrassegnati e cambiano carattere, confondendosi e assumendone uno quello dell’altro. Un luogo o un affetto che sembra una merce. Una merce che sembra un affetto o un luogo. Cambia il senso che diamo alle cose e alla vita. Nuovi schemi mentali si rimodellano sulla base della perdita del senso del qui ed ora e dell’essere presenti. Ce ne allontaniamo, chi più velocemente di altri/e. Chi ha oggi pochi anni di vita, forse, non saprà mai di questa particolare, pregnante presenza, a se stesse/i, in cui si fonda un’autonomia del pensiero. Una presenza capace di far vibrare l’aria attorno a sé. Oggi ci pensiamo, continuamente, altrove. Così come in questi giorni, non si vuole smettere di simulare se stesse/i come “essere notizia” sui social. Di “essere immagine”, di “essere video”. Di “essere la buona parola di conforto” mentre tanto di ciò che è reale crolla. Non lo vogliamo vedere. O, forse, non possiamo più. Non vogliamo sentire il dolore altrui. Vogliamo alleggerirci. Staccarci dalla terra. Allontanarci il più possibile dalla soglia  aperta su quelle porte di silenzio. Evadere da noi stesse/i. Non vogliamo sentire il silenzio sulle strade della città. Ora, come mai nella nostra vita contemporanea, la nostra tregua da spazio al canto e alla presenza degli uccelli. Anche qui in città, tra i palazzi, dove, dal mio balcone, ho contato 18 alberi.

Vogliamo continuare a produrre immagini di noi, con l’idea che questo sia il nostro modo di essere connesse/i. Per paura che, se spegniamo la connessione on-line, smettiamo di esistere. Non beviamo forse alla stessa acqua, non respiriamo la stessa aria, non siamo forse sotto lo stesso cielo?

Si trasformano, nel profondo, il valore per la percezione sensoriale, e delle conoscenze che se ne possono trarre. Conoscenze che riguardano l’ambiente in cui siamo immerse/i, e, di riflesso, riguardano noi stesse/e e la nostra relazione con le/gli altre/i. Questa è, probabilmente, una perdita. Un lutto. Per me, lo è. Ogni tanto me ne ricordo. Ogni tanto lo riprovo. Ogni tanto alcune esperienze della vita me lo ricordano.

 

Come i primi giorni che avevo creato il mio profilo FB. Circa 20 anni fa. Non era passata neanche una settimana e nei miei sogni erano apparse immagini che provenivano dal virtuale. Piansi. Mi provocava un dolore degli affetti. Come quando perdi qualcuno che ami. Piansi perché prevedevo, nella forma di quei contenuti, l’inizio di una invasione della mia mente. Perché arrivava quando ancora conoscevo poco di me e di tutto, ed ero, allo stesso tempo, entusiasta di essere una persona che si occupava di teatro e di ricerca vocale e di canto. La realtà virtuale/digitale la percepivo come un ostacolo, un corpo estraneo a tutte le forme di conoscenza che stavo acquisendo. Una specie di virus. Era presagio della occupazione di spazi della mia immaginazione. La costruzione di schemi mentali e del modo di rappresentazione del reale, fino a quel momento, era basata sulla realtà sensoriale, per sua natura imprevedibile. Con le immagini della televisione, dei film, dei libri letti, della musica ascoltata dalle registrazioni, questa mutazione non era avvenuta, o almeno mi sembrava. Mi sembrava che l’apprendimento aveva comunque mantenuto una certa dimensione con l’oralità e il contatto umano reale, ambientale. Con la libertà di scelta. I dati dell’ambiente reale diventavano forme che si fondevano alle altre esperienze fisiche. Le immagini digitali, invece, entravano nella mia mente creando una separazione, erano/sono rigide, creando uno scomparto nuovo. I contenuti, non si fondevano/non si fondono agli altri schemi. E non si può dire che si trattasse/tratti di contenuti. Forse di formule, di numeri la cui relazione tra loro è per me sconosciuta. Quello che mi appariva e mi appare, oggi, sono: uno schermo, tasti, luce elettrica, una grafica, l’immagine digitale di una persona (non la persona), tutto sconnesso tra essi. Insomma un ambiente asettico che diventa memoria. Un non-ambiente. Nessuno-luogo. Nessuno. Con la televisione è stato diverso, perché potevo scegliere di non vederla. Mentre sulla rete, il sistema lavoro, soprattutto dei precari, e poi, sempre di più, tutto il resto, ci si è appoggiato. Esserci, vuole dire esistere. Ora è passato del tempo e la mia mente, e il mio cuore, hanno appreso come valutare questi dati, discriminare, diffidare, per non perdere il legame con il reale e stare al passo, più o meno, della realtà virtuale.

 

Si, siamo bravi/e a rimanere a casa. E’ una forma di rispetto e di collaborazione. Poiché sembra necessario alla sopravvivenza di tutte e tutti. Questo non sarebbe stato possibile prima del potere di comunicazione degli individui in rapporto di uno/pochi, verso tutti. E se un domani ci dicessero che dovremo lavorare da casa, per il nostro bene?  E se un domani ci dicessero che potremo utilizzare la rete solo un’ora alla settimana, per il nostro bene? Aspetteremo quell’ora per sentirci connesse/i?

In questo panorama di catastrofe della perdita della percezione sensoriale (già iniziata da tempo), mi domando cosa vedrebbe la popolazione sofferente, dei rifugiati nell’entrare nelle nostre città. Noi storditi, di troppo cibo, e di connessione di rete, incapaci di vedere lo stato di reale sofferenza dell’altro. Così come ora, vogliamo vedere confermato, lo stato del nostro “diritto al benessere” cercando di esorcizzare le difficoltà in cui ci troviamo. Allontanarle da noi con una registrazione o foto di noi stesse/i ancora sorridenti. Simuliamo noi stesse/i, come se tutto fosse un eterno spettacolo. In questo panorama culturale mi sembra che la morte trionfi, comunque. L’immagine che mi torna in mente, dagli affreschi e non dalla rete, è quella della morte che danza con la sua falce alzata sugli umani. Ed è soddisfatta.

 

Quando in Paese moriva qualcuno, tutte e tutti facevano silenzio. Chi doveva lavorare usava gli oggetti con levità. Si faceva la veglia. Era un modo di essere attenti, insieme, poiché il mistero della morte ci era vicino. Ogni tanto me lo ricordo. Ogni tanto lo provo, quando non sono distratta dal mio “diritto”, beffardo, a sorridere. Una sensazione di lutto che mi fa sentire, più che mai, connessa alla vita.  Mi ricordo che siamo sulla terra. Che gli elementi in cui siamo immerse/i non sono neutri. Scorrono secondo un proprio orientamento e leggi. Nessuna scienza potrà mai prevedere fin nei minimi dettagli i movimenti delle cose della natura terrestre e cosmica. Lo spero. Ci sono movimenti imprevisti, che noi chiamiamo errori. Noi umani non amiamo gli errori. Ne abbiamo paura. In arte, sappiamo quanto gli errori siano fondamentali per i processi creativi. E la natura non esiste per rassicurare il genere umano. Gli abitanti del paese lo sapevano, ne avevano tratto consapevolezze e conoscenze per andare avanti.

 

Ora, noi, in questa incertezza di potere, anche di quello individuale, vorremmo esorcizzare la nostra impotenza con atti consolatori riversati sulla rete. Esacerbati dalla televisione. E da programmi di ogni sorta che da un lato incitano al rispetto delle regole, e ci informano del disastro economico e dall’altro “somministra” rassicuranti offerte di animazione. Saremo capaci di abbracciarci quando usciremo di casa, o avremo bisogno di qualcuno che ci autorizzi a farlo? Siamo veramente incapaci di fermarci e di ascoltare il silenzio? Ascoltarci? Avverto uno stordimento che non mi fa sentire la sofferenza reale, di coloro che stanno veramente male, se non simulandola a me stessa. Qualcuno muore di un nuovo male, tantissimi. Altri e altre, muoiono del male della guerra e della sopraffazione, qui, vicino ai nostri confini. Per provare ad essere con chi soffre, forse, c’è bisogno della sospensione del respiro di tutte e tutti, in un attimo. Compartecipare del dolore altrui. Invece vogliamo comunicare il nostro protagonismo nell’ebbrezza di questo stordimento. Vogliamo animare ed essere animate/i. Io me ne vergogno, ho sempre avuto dubbi sul valore dell’animazione. Mi vergogno di una parte della comunità virtuale e reale cui appartengo. Per fortuna ci sono eccezioni. E si impara a convivere anche con le proprie vergogne. Crediamo di poter sospendere la nostra condivisione al dolore, ai sentimenti altrui. Si può chiamare rimozione. Paura. Si può chiamare ipocrisia. Come dice una mia amica: “una ipocrisia a cui siamo abituate/i e che non riconosciamo.”

 

Abbiamo potuto rimuovere, in un attimo, lo sguardo sulla “immagine” dei rifugiati schiacciati sul confine tra Turchia e Grecia. Possiamo passare velocemente da questa immagine a quella dei dati dei morti, malati e sopravvissuti al virus, per andare all’immagine del nostro amico spensierato. Se le persone rifugiate arrivassero ora troverebbero città deserte, nessuno ad accoglierli. Noi più inermi di loro che fuggono da contesti dove oltre ai virus e alle malattie ci sono tutte le altre atrocità che portano le guerre: stupri, torture, fame, saccheggi, bombardamenti. Qualcosa che i nostri vecchi ricordano ancora dall’ultima guerra. Ma non abbastanza. Se arrivassero ora, gli zombi saremmo noi. Non vedrebbero sulla rete i video e le foto di noi splendide/i. Ma esseri inermi che si fanno portare la spesa a casa da un altro essere umano che rischia al posto nostro.

 

Quando in paese qualcuno moriva, si faceva la veglia. I canti, le parole, i passi, tutto era sussurato e lieve. Si poteva tenere il lutto per mesi. Era una forma di rispetto. E mi piace pensare, che fosse anche una forma di conoscenza.

 

 

Anna Maria Civico

 

Cantante, attrice, autrice.

Pubblica i volumi “Contributo alle teorie della Performance. Esercizio in ottica di genere” Rubbettino, 2011; “La violenza sulle donne. Riconoscerla, contrastarla, prevenirla” a cura di Francesca Fanelli e AA. V.V., Editrice Universitaria Morlacchi, Perugia, 2012; “Un sentimento di benessere collettivo. Il corpo-voce in musicoterapia”, UVE Umbria Volontariato Edizioni Editoria Sociale Cesvol, 2015. Pubblica il suo primo racconto “Armatura” sempre per UVE Umbria Volontariato Edizioni Editoria Sociale Cesvol, 2019.

 

 

cielo e alberi sopra un cimitero ebraico a Berlino, d’inverno. Anna Maria Civico