Romanzi di streghe. Dall’archivio di Modena al Circolo Polare Artico
Dall’estate scorsa che leggo libri di streghe e partigiane, sulle tracce di memorie familiari e collettive, di cui anche la terra modenese s’è fatta custode e che viene pian piano restituendo.
Tra i secoli XVI e XVII in Europa vennero accusate di stregoneria almeno 100 000 donne, sia in aree cattoliche sia protestanti. Molte di loro furono condannate a morte e quindi bruciate sul rogo, affogate o decapitate. Tra gli accusati troviamo anche degli uomini, ma il numero delle donne è circa cinque volte superiore; è evidente che chi si ostina a negare la forte connessione di questo fenomeno con il sistema patriarcale e con l’ossessione perversa che il cristianesimo ha troppo spesso manifestato nei confronti del corpo e della sessualità femminili tende a rimuovere le radici di questa persecuzione e a ridurne la portata, rifiutando spesso anche di vederne, in epoca contemporanea, quelle propaggini neocolonialiste che Silvia Federici, nel suo Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, individua con molta chiarezza.
Questa persecuzione cominciò sul territorio italiano nel 1542, quando a Roma, su modello della Spagna, venne fondata l’Inquisizione Suprema, ma la quasi metà dei processi alle streghe dell’epoca si svolsero in Baviera. Proprio a Modena si trova uno dei quattro archivi italiani che conservano più atti dei processi per stregoneria svoltisi in epoca moderna, particolarmente numerosi fra 1560 e 1630. Queste fonti sono state utilizzate per ricostruire le vicende raccontate nel documentario Eccellentissima strega e per la mostra Misfatti di confine tra ‘500 e ‘700. La lunga mano dell’Inquisizione modenese su terre bolognesi, organizzata sette anni fa nella chiesa di Sant’Apollinare a San Giovanni in Persiceto, nella Bassa Bolognese. Leggendo le vicende di Ginevra di Longara, Ursula e Bartolina di Crevalcore, e guardando la ricostruzione della storia di Orsolina, la Rossa di Gaiato, mi è nata la curiosità di andare a vedere come questo tipo di materiale possa trasformarsi in letteratura, nel tentativo di attuare quell’“indagine morfologica” in grado, secondo Carlo Ginzburg, di dare una “rappresentazione perspicua” di un’epoca, illuminandone risvolti e connessioni, senza la presunzione di svelarla del tutto. Per riscoprire storie sradicate e silenziate, dobbiamo infatti emanciparci dal bisogno di leggere saggi onniscienti che pretendono di esaurire il fenomeno nella sua pienezza – anche questa una postura a cui il patriarcato ci ha addomesticate – e imparare a fidarci di ciò che è spurio, parziale e frammentario, ad ascoltare le intuizioni che ci sfiorano, le ipotesi empatiche, a distillare il contenuto di verità storica che ogni vita singola veicola, dedicandole spregiudicata attenzione. Ed è proprio così che la letteratura, nutrendo il nostro sentire, può renderci più sapienti.
Ho condiviso questo percorso con le mie alunne e coi miei alunni di seconda media, scegliendone le parti che potessero essere più significative per loro. A pochi mesi di distanza, noto come questo approfondimento basato su documenti storici, rielaborazioni da saggi, testi audiovisivi e letterari, abbia contribuito ad affinare la loro recettività rispetto a ogni tipo di violenza epistemica, le loro capacità critiche nei confronti del canone culturale egemone, la loro sensibilità per il rispetto dei diritti di ogni essere.
Nell’ottica di analizzare le caratteristiche del romanzo storico nella sua forma classica, per quanto declinato nell’ambito di canoni novecenteschi, abbiamo letto ampi stralci della Chimera di Sebastiano Vassalli, dove, a partire dagli atti del processo ad Antonia Spagnolini, consultati negli archivi del tribunale di Novara, l’autore ricrea con dovizia di dettagli il microcosmo della Bassa Pianura piemontese, modellata dal fiume Sesia, coi suoi contadini, i risaiuoli, i caminanti, le veglie nelle stalle. Con l’incedere di un Manzoni che ha perduto la verecondia, Vassalli si addentra nei particolari più morbosi e repellenti dell’accanimento persecutorio nei confronti di una giovane orfana, invidiata e infamata per la sua bellezza e per la sua ostinata volontà di andarsi a procurar piacere, lasciandocene una ricostruzione minuta e appassionata.
Ma se un romanzo storico lo scrivesse una poeta? Allora potrebbe nascere una narrazione pregnante, nella quale periodi ipotattici ad aggettivazione densa si alternano alle frasi secche e schive di una paratassi così essenziale da farsi bruciante come una bufera di neve artica. È ciò che accade con Vardø. Dopo la tempesta all’inglese Kiran Millwood Hargrave, che ho letto nella bella traduzione di Laura Prandino. In questa autrice, la visita all’installazione realizzata da Louise Bourgeois e Peter Zumthor del memoriale dei processi sull’isola di Vardø, nell’estremo nord della Norvegia, ha innescato l’urgenza di farsi voce di una tragedia periferica e dimenticata, generatasi in seguito al naufragio che, nel 1617, lasciò priva di uomini adulti la minuscola isola della contea di Finnmark. Dalla sua esperienza di poeta scaturiscono momenti lirici di una potenza sferzante, sui quali si articola l’invenzione di una passione amorosa fra due donne, incuneata in una ricostruzione storica discretamente curata, ma che non offusca l’urgenza di inscenare una tematica sottilmente attuale: il tentativo di costruire una comunità di donne nella cornice del patriarcato. “Dobbiamo prenderci cura una dell’altra”, dice Kirsten, l’anticonformista, la sagace, quella che non teme di indossare i pantaloni e di guidare le compagne nella pesca in mare aperto. Ma l’opportunità di cucire una nuova forma di coesione nell’incipiente comunità matriarcale cede immediatamente al meccanismo del pregiudizio, che facilita il propagarsi delle insinuazioni fino a distorcerle in accuse infamanti, scatenando quel conflitto fra donne che il patriarcato ha tanto interesse a fomentare. Il sistema dominante è reso in tutta la sua disumanità dalla contestualizzazione storica scelta: l’anno in cui viene pubblicato il decreto norvegese sulla stregoneria. Nel villaggio, rimasto senza uomini, giunge allora l’autorità cieca, famelica e pervertita degli inquisitori, per cui la donna è ossessione e, per questo, temuta e letteralmente demonizzata – da ogni suo orifizio può scaturire il diavolo in persona – quindi schiacciata in una posizione subalterna, mantenuta analfabeta e reietta. Si istigano allora le donne più colluse con questo sistema di valori rovesciato a cercare un capro espiatorio, che ovviamente viene individuato nella “più diversa”: Diinna, la giovane sami, figlia di uno sciamano, la quale, come il suo popolo le ha insegnato, sa abitare la terra senza possederla, essenza di una visione matriarcale che nessuna rivoluzione generata nella logica occidentale delle nazioni ha mai voluto promuovere.
Ed è in questa società brutale ed estrema che l’autrice delinea con delicata maestria, seppur dotando le protagoniste di alcuni tratti anacronistici, il pericoloso sbocciare di un amore lesbico. Doppiamente proibito perché avviene proprio sotto il tetto del cacciatore di streghe. Un episodio marginale della caccia alle streghe diventa il teatro dove inscenare i meccanismi tragici del tradimento e dell’abbandono fra donne, declinato nelle sue sfumature, che vanno dalle alleate fedeli del patriarcato, le quali sanno cedere al richiamo dell’arcaico sapere femminile, che pubblicamente negano, solo per motivi opportunistici (rimanere incinte, per esempio), alle vinte dagli eventi, come la madre di Maren, che cedono e tradiscono perché tramortite dal dolore e dalla privazione, che le rendono ancora più influenzabili, e perché necessitano di un capro espiatorio su cui riversare la colpa del trauma subito. La rappresentazione prescinde dal giudizio: agiscono mosse da altri, in una temperie di terrore inoculato e impotente orrore, tanto che la loro delazione ha anche il volto di una perversa necessità, in cui sembrano non avere voce in capitolo. Le maglie erano così strette che arduo era non rimanervi imprigionate. La nostra memoria cellulare risuona del tradimento ricevuto e del tradimento inflitto, dell’abbandono subito e dell’abbandono agito. Un vischioso retaggio che tutte ci portiamo dentro e che l’autrice riesce a far affiorare, in un’intuizione dolente.