Carola Susani, “Terrapiena”

L’ho preso in cerca di una scrittura-sangue, di una scrittura-corpo, di una scrittura-terra di frontiera. L’ho preso perché era ambientato nei primi anni Settanta. E c’erano sguardi sghembi di bimbi ai margini. L’ho letto per un terzo senza concentrazione. Poi sono arrivate frasi sferzanti, facce immortalate che poi non dimentichi. Naturalmente il torbido, il sesso, la violenza. Nessuna pietà. Naturalmente. Ogni editore ha la sua poetica.

In incipit, l’epilogo: un corpo che spenzola (gli davo così poco peso che pensavo che da un momento all’altro si sciogliesse dall’albero e cominciasse a spruzzare acqua ai bambini). Ci sono i libri e la coperta sporca, il tepore di corpi pubescenti che si sfiorano.

La madre. Suo, il ritratto memorabile. Madre di un amore univoco, che suo figlio Ciccio nemmeno lo vede. Madre arcaica e gretta.

Mia madre non amava picchiarmi. Per farlo avrebbe dovuto alzarsi da una sedia, dalla sdraio a righe blu o dal letto, separarsi da Maria, appoggiarla in un posto, muoversi, rincorrermi, sudare. […] Anche urlarmi dietro la disturbava: la costringeva a distogliere l’attenzione da Maria, e questo era uno sforzo doloroso per lei. (p. 9)

Mia madre accolse quelle novità senza sorridere, senza dire grazie, con quella passività ostile e sorniona che poteva sembrare di volta in volta provocazione sessuale, disprezzo, ritrosia, o addirittura saggezza; la sapeva talmente lunga sulla vita, così la sua bella faccia millantava, che se non si trattava di Maria non gliene fotteva niente di niente, e lo zio, e io e la baraccopoli e l’intera vita sulla terra, potevamo essere spazzati via senza che le si sollevasse il sopracciglio o le tremasse l’occhio. 

E allora Ciccio, lui racconta, racconta tutto in prima persona da due tempi diversi, in una contrapposizione che alla fine scopriremo tragica. Perché tutto è già scritto nel fato di questa vicenda solo apparentemente prossima nel tempo.

Italo Orlando, l’autrice gli dedica una trilogia, che Terrapiena chiude, forse. Italo Orlando, l’efebo conturbante. Che compare e scompare senza preavviso, seminando sensualità e morte.

L’acqua, da elemento ambientale a umore corporeo, evocato anche lungo le linee dell’assonanza. Umore che si solidifica in potenza fisica.

C’era stato un tempo. L’acqua, in certi punti tanto calda da indurre al sonno; il languore si faceva così forte che avevo l’impressione di sparire. Ora, pensavo, questa forza, che è il contrario della forza, mi trascina giù. L’onda, mossa dai bambini, si alzava e mi sbatteva contro il fianco. Se aprivo gli occhi, mi trovavo di fronte la faccia di lui, del ragazzo del fiume, arancione per via della luce radente della sera. (p. 41)

I movimenti anarco-comunisti dei primi anni Settanta.

Foto dalla raccolta “Messina, cent’anni di baracche”