Altri due romanzi di streghe
Con Ho lasciato entrare la tempesta la scrittrice australiana Hannah Kent risponde a una chiamata bruciante, come quelle descritte da Maria Attanasio. È la storia dell’ultima persona condannata a morte in Islanda, nel 1830 quella che si attacca addosso all’autrice, giovanissima studentessa che arriva in un paesino del nord dell’Islanda per uno scambio accademico: Agnes Magnúsdóttir, nata nel 1795, è accusata di aver ucciso il suo ex amante, un guaritore che la gente considera “più vicino ai diavoli dell’inferno che agli angeli del paradiso”. Hannah Kent, mentre ne ricostruisce gli ultimi mesi di vita, ne traccia la storia e il carattere, dopo una ricerca durata dieci anni[1], sulle tracce di questa donna dimenticata che attraverso le parole della giovane autrice reclamava di nuovo un corpo. La sua è una figura di scabra potenza: l’intelligenza affilata, la parabola estrema, dalle origini alla fine, la passione lucida. L’autrice si lascia invadere da questa donna perduta e le offre il racconto in prima persona, che si alterna con una narrazione esterna, di respiro più largo. Una tragedia annunciata che lo stesso tiene sospese, incalza, scatena la sensazione di un’ineluttabilità prostrante quanto selvaggia. Primitiva.
Gli ultimi mesi della vita di questa donna devono essere accompagnati da un giovane curato, il quale dovrebbe farle da guida verso una morte serena, a espiazione del peccato che l’ha macchiata in vita, ma le parti si capovolgono ed è il giovane religioso a confondersi e infine a restare soggiogato dalla potenza di questa donna scabra e acuta, i cui silenzi sono lancinanti appelli a un’altra giustizia, che smetta di essere cieca.
“Tu, Agnes Magnúsdóttir, sei stata giudicata complice di omicidio. Tu, Agnes Magnúsdóttir, sei stata giudicata colpevole di incendio e di omicidio premeditato. Tu, Agnes Magnúsdóttir, sei stata condannata a morte. Tu, Agnes. Agnes.
Ma non sanno chi sono.
Io resto muta. Determinata a chiudermi al mondo, a serrare il mio cuore e a tenere stretto quel poco di me che non hanno ancora rubato. Non posso perdere tutta me stessa. Mi aggrapperò a chi sono dentro e stringerò le mani intorno a tutto ciò che ho visto e udito, e provato. Le poesie composte mentre lavavo, falciavo e cucinavo fino a scorticarmi le mani. Le saghe che conosco a memoria. Seppellirò tutto quel che mi rimane per immergermi negli abissi. Se parlerò, saranno solo bolle d’aria. Non riusciranno a carpire le mie parole. vedranno la sgualdrina, la pazza, l’assassina, la femmina che gronda sangue sull’erba e ride con la bocca piena di terra. Diranno «Agnes», e vedranno il ragno, la strega rimasta impigliata nella sua stessa letale ragnatela. Potrebbero vedere l’agnello circondato dai corvi, che bela per invocare la madre perduta. Ma non vedranno me. Perché io non ci sarò.” (p. 37)
Rischia di lasciarci la pelle, il giovane sacerdote, esperto di libri quanto acerbo di vita, poi si fa coraggio, come un infante cresce nei deliri della febbre, e la accompagna all’esecuzione.
Anche in Dentro soffia il vento di Francesca Diotallevi fra i protagonisti c’è un giovane reverendo che giunge in Val d’Aosta da Roma, colto e spaesato. Si chiama Agape ed è anche uno dei tre narratori che si avvicendano lungo il romanzo, intitolando i rispettivi capitoli.
Dentro questo romanzo c’è l’esclusione delle diverse e la cattiveria della gente, la poesia degli zingari e le conoscenze antiche delle donne, tramandate di madre in figlia, c’è l’astio di un fratello rimasto l’unico e un incessante turbinio, della “neve omicida” e di cuori che sanguinano. Tutto questo racchiuso in una remota valle alpina, dove la lapide che commemora una strage nel primo dopoguerra, è l’uncino che aggancia l’autrice e le ispira questa trama appassionata, narrata a tre voci: il già nominato don Agape, e poi Fiamma e Yann, le pecore smarrite che il giovane prete vorrebbe ricondurre al gregge. Yann, zoppo e rabbioso; Fiamma, la strega che vive ai margini del bosco, che gli abitanti del borgo dicono di odiare e temono, ma da cui vanno “a cercare conforto dai loro mali”, (64), come del resto nemmeno don Agape potrà evitare di fare; Fiamma, la cui madre si diceva fosse finita “dritta tra le grinfie del demonio, e con lui aveva fornicato fino a dare alla luce quella figlia, che aveva capelli di brace e occhi da bestia selvatica” (97); Fiamma, che quel suo Dio dal “corpo martoriato” e dallo “sguardo sofferente” rinchiuso nelle chiese però non lo vuole, perché non lo riconosce, perché sua madre le ha insegnato che «Dio è nei dettagli» (88). che “Dio è la montagna che ci tiene al sicuro, pur esponendoci a tanti pericoli. È l’acqua e il cibo che ci permettono di vivere, il fuoco che ci riscalda. Dio è la pioggia che bagna i campi e il sole che scioglie la neve.” (106)
E anche qui le anime da salvare finiscono per essere le più salvifiche – quelle che sanno l’antico segreto sciamanico che i posti più remoti hanno saputo conservare: non c’è separazione fra materia e spirito; il cosmo è un “organismo vivente popolato di esseri e di influenze occulte, in cui ogni parte è in rapporto di simpatia col resto. In quest’ottica che vede la natura come un grande libro magico da decifrare, ogni elemento, erbe, piante, metalli, animali fino allo stesso corpo umano, nasconde virtù che gli sono peculiari” . (Michela Zucca, 76) Ma questa sacralità della natura il cristianesimo ufficiale non ha saputo leggerla: col suo forzato monoteismo e con le sue smanie gerarchiche, ha preferito escludere, avendo ricevuto violenza ha poi creduto bene di esercitarla.
