“In piaza in braghéin a’in soun mai andè!” – Zelinda Resca, partigiana della vita

Nel giorno della liberazione di Bologna, il 21 aprile scorso, con la 3G delle medie Volta abbiamo portato nella sede di quartiere a Borgo Panigale una lettura collettiva di brevi testi sulla Resistenza realizzati dalle ragazze e dai ragazzi a partire dai podcast di Radio 3 Belle storie e da alcune fonti scritte. Il microfono funzionava male e all’ingresso della sala era collocata una macchina infernale che, a ogni persona che entrava o circolava nei pressi, intimava di disinfettarsi le mani e indossare la mascherina; la rappresentazione ha quindi reso molto meno rispetto a quanto la lunga preparazione dei monologhi avrebbe meritato. Ma nella piazzetta antistante l’edificio della circoscrizione, un signore mi si è avvicinato per dirmi che l’ANPI di Corticella aveva dedicato molta cura nell’approfondimento e nella divulgazione della vicenda di una delle partigiane rievocate dalle alunne: Zelinda Resca. Era Franco Ruvoli ed è grazie a lui che ho scoperto il videoracconto Processo alla Resistenza e che ho potuto leggere il dattiloscritto in cui la partigiana racconta la sua vita. La sua vicenda, per tanti versi amara,  ci ricorda che la Resistenza non si concluse con il 25 aprile ma ebbe una coda ben più prosaica in quella “caccia alle streghe” che si innescò nel clima dell’incipiente guerra fredda, in cui l’Italia guidata dalla DC si mostrò talmente solerte nell’aderire al blocco statunitense e poi alla NATO da voler rimuovere l’incidenza comunista nel processo di liberazione nazionale, non esitando a infangarne gli attori per screditare l’opposizione e renderla subalterna nella ricostruzione della nuova democrazia. La storia di Zelinda Resca ci mette davanti l’evidenza di una neonata repubblica macchiatasi fin da subito di astuti giochi di potere e inficiata da un greve maschilismo, che non conosceva reali soluzioni di continuità con la cultura patriarcale esacerbata dal fascismo. Eppure quello che ci resta di questa donna è la sensazione forte di una vita vissuta nella passione e nella semplicità, il sapore di un’umanità pulsante che ha saputo spendersi senza fronzoli, nel coraggio e nell’apertura.

Sono figlia di contadini molto poveri.
La mia vita è stata costellata di mille sacrifici ed ancora di più per i miei genitori che hanno 
allevato nove figli giunti tutti ad età adulta; infatti il primo è morto a sessant'anni.
I miei ricordi sono prosieguo di cose belle, brutte, strane, insopportabili; eppure io, che 
di tanti fratelli sono la più piccola, sono stata la più fortunata (specie in età infantile); 
per il resto è tutto da verificare.

Cresciuta nella cultura del socialismo che, negli anni del primo dopoguerra, tanti contadini di queste zone pagarono con la miseria e le botte degli squadristi prezzolati dagli agrari, Zelinda Resca fu donna d’istintivo coraggio. Nacque a Castello d’Argile, nelle campagne della Bassa bolognese. Giovanissima dovette assistere ai soprusi subiti dal padre per le sue convinzioni politiche – venne, tra le altre cose, cacciato dal suo podere e ridotto al bracciantato. La scelta dell’antifascismo fu per lei spontanea e inevitabile. Si trasferì poi a Corticella, ai margini del capoluogo emiliano, dove gestiva con la sorella Annina una merceria-cartoleria, in cui si potevano trovare anche le calze rimagliate e i giornali. Durante la Resistenza, il negozio divenne una base partigiana, dove si svolgevano riunioni e veniva smistata la stampa clandestina. Lei stessa entrò nella lotta col nome di Lulù. Fu imprigionata pochi giorni prima della Liberazione e venne torturata – subì tra l’altro la simulazione della sua impiccagione – e poi rinchiusa in una casa da dove riuscì a scappare proprio mentre stavano arrivando le forze liberatrici dell’ottava armata britannica.

Nel videoracconto, Francesca Ciampi, che alla sua terra ha dedicato una sentita testimonianza, descrive con precisione millimetrica l’ubicazione della suddetta merceria – nel palazzo allora detto della Dogana, esattamente di fronte alla casa del fascio che poi diventò Casa del Popolo – così come le due sorelle Resca che lo gestivano: due ragazze sorridenti e cordiali, che lasciavano guardare le riviste anche a chi poi non le comprava. Uno di questi era Nerio Nesi, partigiano e futuro parlamentare, che si attardava a sfogliare i giornali, distratto in realtà dalla dirompente presenza della giovane Zelinda. Francesca Ciampi appartiene alla generazione di quei cinni di guerra, che avevano giocato dentro le voragini scavate dalle bombe e che mai avrebbero dimenticato i corpi dei partigiani impiccati col filo da stendere ed esposti per strada a pubblico monito. Ricorda che giovani impegnati come Zelinda e Nerio dedicavano del tempo a lei e ad altri bambini, nella consapevolezza che stavano formando un futuro diverso: li portavano a visitare i luoghi significativi della città e ai cineforum la domenica mattina per farli crescere curiosi e responsabili. Dalla sua testimonianza trapela anche l’ammirazione che Nesi nutriva per Zelinda e l’umorismo di lei:

– … e quella volta che eri in piazza con le braghine corte e la pistola?!, – le disse lui una volta.

E lei: – Ve’ Nesi, me in piaza in braghéin ain soun mai andè, eh!? 

La Liberazione era stata “la felicità totale – baci abbracci fiori”. Totale “perché tutti erano felici, non solo tu”, ma ciò che era stato non si poteva cancellare con un colpo di spugna, visto che l’ingiustizia sociale permaneva intatta.

Bisogna pure dirlo, ci sentivamo abbastanza importanti, credevamo di contare qualcosa. Gli 
alleati ci fecero subito capire che bastavano loro a rincorrere i tedeschi [...] 
Fu la prima delusione.

Si aprì un periodo sanguinoso e poco narrato. I delitti che avvennero all’indomani del 25 aprile vennero usati come pretesto per processare l’intera Resistenza e togliere credibilità ai suoi protagonisti, soprattutto ai garibaldini. Sono gli anni del naufragio della speranza per tutti quelli che nella Resistenza avevano vissuto non solo una guerra di liberazione dal nazifascismo, ma anche una lotta di classe, e che videro il loro ideale sfiorire in “una stagione repressiva che scavalca molte norme del diritto”, come afferma lo storico Luca Alessandrini, terza delle tre voci che ricostruiscono la figura di Zelinda Resca nel videoracconto (la seconda è lo stesso Nerio Nesi). I processi cominciarono nell’autunno 1948, dopo che le reazioni della base comunista all’attentato contro Togliatti del precedente 14 luglio avevano impaurito a morte i moderati. La rottura dell’unità antifascista fra comunisti e cattolici era del resto già avvenuta: nell’estate precedente, infatti, la sinistra era stata allontanata dal governo, in concomitanza con la decisione della DC di De Gasperi di entrare nella sfera d’influenza degli Stati Uniti, dai quali aveva già ottenuto enormi prestiti per la ripresa della nazione. Si apre così un’epoca di anticomunismo di stato: tra 1948 e 1951 più di 90.000 persone vennero arrestate per presunti reati politici – non solo partigiani, ma anche giornalisti, sindacalisti, dirigenti delle sinistre. Di loro, solo 19.000 giunsero a processo e soltanto la metà fu condannata.

In questo contesto di sistematizzata prepotenza, nel 1951, in seguito alla scoperta di una fossa di (ex)fascisti, o presunti tali, uccisi nel maggio 1945 da partigiani bolognesi, Zelinda venne arrestata.

Era di lunedì e io ero molto indaffarata con la nota di merce, la merce per la settimana al 
negozio.
Alle 9 e 30 entra il brigadiere dei carabinieri che noi conoscevamo bene, essendo della
 Stazione di Corticella, perché tutte le mattine veniva a prendere il giornale: chiese 
chi delle due fosse Resca Zelinda, gli risposi che ero io. Tacque per un po' poi: 
"Le dispiace venire in caserma con me, si tratta di formalità. Il maresciallo le 
deve fare alcune domande".
Gli chiesi se potevo andarci a mezzogiorno, avendo delle cose da fare, disse che
si sarebbe trattato di pochissimo tempo, quindi andai con lui.
In caserma il maresciallo mi fece vedere e leggere un mandato di cattura, subito 
dopo fece una telefonata.
Non avevo ancora avuto il tempo di riordinare le idee e riprendermi dalla sorpresa 
che arrivò il cellulare e mi portò in San Giovanni in Monte.
In guardiola c'era una suora che seppi chiamarsi Carmela. Mi prese tutti i dati, 
mi fece consegnare tutti gli oggetti che indossavo: anello, orecchini, collana, 
cintura, orologio e portafogli con i soldi; quindi mi fece passare in un'altra stanza 
dove un'altra donna mi perquisì, mi palpò dappertutto. 
Dopo queste operazioni, mi fecero percorrere un lungo corridoio in fondo al quale 
c'era un cancello, un altro spazio e un altro cancello, dopo questo passaggio si
 arrivava in una grande stanza e per uscire da essa c'era ancora un cancello, 
da lì si arrivava in un cortile interno.
Ho descritto tutti questi passaggi per far capire quanto sarebbe stato difficile 
uscire da quel labirinto, io lo feci dopo due anni e mezzo.

A San Giovanni in Monte subì una detenzione intimidatoria e punitiva, che la fece ammalare alla gola e a un ginocchio. Fu portata in ospedale, il personale del carcere rimproverato per il ritardo con cui si era deciso a intervenire. Poi per metterla in un posto più salubre… venne internata al manicomio criminale di Aversa! Lì le detenute godevano di più ore all’aria aperta e si pensò fosse una bella trovata inviarvi anche la ex partigiana malata all’apparato respiratorio. Fu messa in cella con altre sette donne e, visto che era l’ultima arrivata, dovette prendere posto vicino al “bugliolo”, il secchio dove ogni detenuta scaricava i suoi bisogni, con un coperchio che, a forza di apri-e-chiudi, rimaneva sollevato e al mattino la cella era invasa da un tanfo insopportabile. Là conobbe la Cianciulli, “la saponificatrice di Correggio” e, più tardi, Pia Bellentani, una nobile che aveva freddato con la pistola del marito il suo amante, durante una festa in cui lui le si era rivolto con fare gelido e sprezzante. Vide coi suoi occhi gli abusi commessi da quella che veniva chiamata “l’Eminenza Grigia”, l’unica suora che aveva contatti con le carcerate – “una bellissima donna avrà avuto sì e no 35 anni” – che elargiva cibo decente in cambio dei favori sessuali concessi dalle detenute più povere ed emarginate e che godeva di totale impunità nel manicomio, dove i privilegi di classe e di casta venivano rigorosamente rispettati.

Oltre alla sua appartenenza politica che rivendicò fino alla fine, rifiutando di farsi difendere da un avvocato non comunista nella volontà di essere solidale con la sorte degli altri compagni incarcerati, Zelinda pagò, nella durezza delle accuse, il fatto di essere donna: le furono attribuiti crimini considerati comunemente “maschili” e venne dipinta come una creatura demoniaca: poteva una donna aver usato una violenza così estrema e omicida?

 

Ma la sua Corticella non la abbandonò. Nei fine settimana partivano le macchine per andarla a trovare, la sua famiglia non mancò un colloquio, una volta arrivò addirittura un pullman con 50 persone che le portarono un uovo a testa, ma al manicomio non li fecero entrare. Zelinda pianse di rabbia, quella volta, e spartì le uova con le altre detenute.  La solidarietà dal basso in quegli anni non mancò mai di farsi sentire – una prosecuzione sotto nuova veste di quel sostegno della gente senza il quale la Resistenza non avrebbe potuto essere: coi braccianti e gli operai in carcere, intere famiglie sarebbero finite alla fame se non fosse stato per le collette organizzate dai compagni. La solidarietà politica e umana fu enorme. Nel caso di Zelinda, lo testimoniano le numerose lettere, le cartoline, i messaggi che provocavano la stizza di una severa suora guardiana: “Ma chi sei tu perché in tanti si diano da fare?”, le diceva rabbiosa, dopo averle tenuto nascoste le oltre cento cartoline inviatele dai suoi compaesani per l’inaugurazione del monumento ai caduti di Corticella.

Nel dicembre del 1953 venne assolta e scarcerata. Stava male fisicamente, aveva perso la fede, era sconfortata e incredula. Alla vista del fratello e della cognata si sentì però scoppiare di gioia e fu come se non zoppicasse più. Lasciò quello che le restava degli aiuti ricevuti alle sue compagne con le quali aveva “instaurato un discreto rapporto umano. Erano tutte delle poveracce che avevano commesso dei reati perché malate psichicamente”, racconta con un’umanità che commuove e corrobora. Queste preziose testimonianze scritte sono state utilizzate da Donatella Allegro e Paolo Soglia che per ANPI di Corticella e altre associazioni culturali cittadine, con il sostegno del Comune di Bologna, hanno realizzato il sopracitato videoracconto e lo spettacolo teatrale Per il resto è tutto da verificare. Una scrupolosa operazione di recupero che è preziosa perché, oltre a restituirci il sapore di un’epoca che sta pian piano perdendo le sue ultime voci da dentro, si colloca come un’evidenza critica contro quella tendenza revisionista, in atto da più di trent’anni, tesa a ridimensionare la portata della Resistenza nella storia italiana, inventandosi quello che Cesare Bermani chiama “il nemico interno” (una tendenza scandagliata di recente, con coraggiosa puntualità e precisione bibliografica, nel saggio di Chiara Colombini, Anche i partigiani però…, che ho letto l’anno scorso con molto interesse e che mi ha ricollegata con dolorosi vissuti familiari).

Zelinda racconta così gli anni vissuti dopo la scarcerazione:

Decidemmo di cercare una casa in collina quando la mamma ne ebbe bisogno, prima di allora  andavamo 
sempre in  Val Gardena o a Molveno. La trovammo a Riola di Vergato [...] Sono stati una ventina 
d'anni, o poco più, bellissimi. Abbiamo molto lavorato ma dopo eravamo soddisfatti del lavoro fatto. 
Andavamo a fare legna nel bosco, coltivavamo fiori, avevamo prato e orto.  La casa la tenevamo
 come se fosse di nostra proprietà e amici e parenti vi trovarono ospitalità. [...] 
Il nostro forte erano le crescentine. Quando passava qualche amico o parente, bastava che
 avesse un'ora da perdere e le  crescentine erano d'obbligo. 
Poi tutto finiva sempre in allegria. 
Sono stati anni straordinari di vita piena.

Le sue parole mi emozionano: questa vitalità intatta, seppur ferita, io me la rammento nei momenti di sconforto e sento che mi fa battere dentro una persuasione familiare. Sono voci come questa, di donne che continuano a parlare un linguaggio di affetti e connessioni seppur profondamente travagliate dalla violenza intrinseca al sistema patriarcale, che si ostinano caparbiamente a cucire la vita nel reticolo mortifero di una visione assurda. Esiziale. Donne che ragionano, sentono, ridono, soffrono, cucinano, come le mie nonne e le mie prozie. Donne da cui mi lascio accompagnare perché quello che sono state non si perda. E la tovaglia, con variopinti motivi floreali che in Processo alla Resistenza sta appoggiata per tutto il tempo dell’intervista sulla panchina dove Francesca Ciampi è seduta mentre racconta la vita di Zelinda Resca, ci comunica proprio la straordinaria normalità di questa partigiana della vita, voce radicata in un tessuto collettivo oggi ormai smagliato, voce che continua a trasmetterci il valore dell’impegno condiviso nella solidarietà e nell’allegria.