Donne di scienza. Agnese Seranis o della scrittura che ausculta e svela
Scopro Agnese Seranis lo scorso novembre durante il laboratorio di scrittura d’esperienza tenuto da Lea Melandri alla Biblioteca delle Donne di Bologna. Prendo due libri suoi e il primo lo leggo in poche ore durante il fine settimana: si chiama Il filo di un discorso, uscito nel 1997, e la narratrice si scandaglia strappando i veli della convenienza e, madre di una figlia giovane adulta, interroga questa relazione alla luce anche della rilettura della figura di sua madre, già defunta. L’analisi si declina in un campo poco battuto dai testi femministi e che sicuramente io ho frequentato poco o nulla: quello della scienza, della fisica per essere più precise, che col suo sguardo universale tende a essere particolarmente autorevole anche per le altre discipline scientifiche, che vengono modificate dalle sue scoperte. Campo in cui la femminilità, negli anni Sessanta in cui l’autrice era studentessa universitaria, tendeva a essere obliterata dalle stesse studentesse, in una sorta di autocensura preventiva. Come l’autrice, sia la narratrice che la figlia dottoranda sono allora due studiose di fisica, ma tra loro è in atto un conflitto dovuto anche al fatto che la madre ha deciso di rinunciare alla sua carriera e tornare a fare la casalinga. Si chiamano entrambe Alice – che è nome che torna in tutte le opere di Agnese Seranis – così come Alice si chiama la madre della protagonista; è un dialogo bidirezionale, dove l’autrice si sdoppia nelle istanze, nei blocchi e nei desideri di tre generazioni con un gesto che sul piano creativo è di doppia accoglienza (anche la figlia prende la parola in prima persona nelle pagine finali, dove è riportato il suo diario con una rivelazione sconcertante per la madre ma anche un’apertura speranzosa di un’evoluzione femminile già in atto), ma che sa mettere in scena il dolore di quelli che sono anche tagli separatori perché al mondo troppo spesso stiamo da disadattate e questa “è una questione di dissonanze. Sì, dissonanze. Disarmonie. Separazioni. Scissioni“. E la scrittura ci si prova a “ricucire una ferita. Ritrovare una trama.” (40). La scrittura di Agnese Seranis è scrittura di quella che lei stessa chiama “le sconnessure“. Che derivano anche dal suo non volersi rassegnare alle elisioni e alle sintesi che la scienza impone:
La scienza, mi dico, è una continua elisione. Mi ritornano in mente i suggerimenti annoiati del mio collega quando mi accanivo a cercare spiegazioni di un risultato anomalo: Toglilo dal grafico, avrai sbagliato qualcosa, diceva. Ma che cosa?, rispondevo, se mi sembra di aver effettuato il processo nelle stesse condizioni di sempre. Forse è la relazione che utilizziamo che non è corretta. E lui concludeva con una nota di sufficienza nella voce: Non arriverai a niente ad intestardirti, così non finirai più di scrivere l’articolo. Quel risultato è semplicemente una fluttuazione statistica. La statistica, mi dico, risolve la molteplicità azzerando ogni diritto all’identità. Alla fine anch’io mi sono piegata all’esigenza della scienza che richiede una sintesi. E la sintesi, si sa, prevede ragionate potature. L’albero della scienza deve protendere i suoi rami con regolarità, equilibrati nella distribuzione dei frutti e delle foglie. (63-64)
Ma la sintesi, come scriveva José Saramago, è troppo spesso “mancanza d’amore”. E allora vedi… Alice, il nome che torna. Alice “l’anello che non tiene” di montaliana memoria. Che dalle strette maglie della scienza classica fa scaturire le meraviglie lasciando irrompere nell’universo ordinato quel “talento visionario” (19) che secondo l’autrice le donne dovrebbero imparare a immettere nella scienza e farlo fruttare, per il bene dell’umanità. Talento visionario che sicuramente Agnese Seranis riesce a far colare nella sua scrittura. Il vero nome della scrittrice era Agnese Piccirillo, e non per niente per dare voce a questa intelligenza che sta tentando di scrollarsi di dosso le gabbie di una tradizione inveterata che ha altre priorità (quelle del pensiero maschile) per divenire finalmente intelligenza liberata, trova uno pseudonimo: soprattutto nello scritto di esordio dal bel titolo Io, la strada e la luce di luna, la sua è parola volutamente s-ragionata, impudica, estrusa con una potenza rara che continua a vibrarti dentro e chissà se è solo un caso che le lettere del suo cognome d’arte siano l’anagramma della parola sirena con l’aggiunta di una -s finale, sinuosa chiusura a riprendere l’iniziale sibilante, scrigno del mostruoso senso nuovo delle sue parole divinatrici (chissà se Agnese conosceva Meri Lao...)
Nel dialogo interiore che l’Alice/autrice instaura con la generazione che la precede leggiamo:
Mia madre… quella della mia infanzia. Mia madre si aggirava per la casa, sempre indaffarata. Dal mattino alla sera. Non si fermava mai. Si alzava presto, prima di tutti noi, a preparare la colazione. Ci chiamava: Su, su, presto che se no arrivate tardi a scuola. […]
Mia madre era come la sacerdotessa di tutti quei riti, che si svolgevano tra le pareti di casa: un tempio. Gli dèi tutelari della famiglia avevano delegato a lei il compito di proteggere, di difendere tutti quegli esseri umani seduti ora intorno al tavolo. Si capiva che lei aveva accettato questo suo destino: necessario all’ordine delle cose. L’avevano preparata per questo. (10)
Un universo dotato di apparente armonia, “come doveva essere apparso a Newton”, una realtà in cui la protagonista era pronta a occupare il posto previsto per lei, di madre-moglie, cosa che in effetti fece, se non fosse che dentro di lei quell’ordine non trovava rispecchiamento. Anche perché la rottura era già avvenuta parecchi anni prima, con la scoperta dei libri:
Con mia madre qualcosa si spezzò, un giorno. Avvenne quando smisi di trotterellarle dietro: avevo scoperto i libri. Fu un amore a prima vista, definitivo, che dura ancora. Sempre con un libro tra le mani – quasi un rimprovero – cominciò a ripetermi mia madre. Il fatto è che se n’era andato, senza che me ne accorgessi, il fascino della casa; e le richieste di mia madre, fai questo, fai quello, vai a comperare il pane, metti nei cassetti la biancheria stirata, controlla che il sugo per la pastasciutta non bruci, mi irritavano. Io non volevo più essere disturbata. (14)
Anche l’incontro col sapere attraverso la scuola, da bambina, la appassiona eppure già lì avverte un’inadeguatezza – uno scarto che quante volte anch’io ho avvertito soprattutto crescendo e che troppo a lungo ho attribuito a un’insufficienza mia personale – ecco perché la scoperta del femminismo ha cominciato a curarmi.
Amavo la scuola e la mia maestra, che mi insegnava tante cose. Tuttavia percepivo inconsapevolmente un certo disagio per la mancanza di qualcosa in ciò che diceva: nelle sue parole, nella sua voce. Quel qualcosa mi fu chiaro solo molto tempo dopo: era l’assenza di un qualsiasi dubbio a renderci consapevoli della complessa, contraddittoria storia del percorso umano a quel sapere. Tutto quello che insegnava era dato come un sapere certo, un patrimonio di tutti, da sempre. (15)
Ed è attraverso i libri, attraverso lo studio, che Alice comincia un vero e proprio corpo a corpo con gli scienziati del passato recente, per primo Einstein, che con la sicurezza che gli derivava sì dal suo genio ma anche dal filo del discorso scientifico maschile, a soli 26 anni si era messo a scuotere le certezze dell’universo e a inoculare nella percezione il tarlo del dubbio:
Prendo in mano la biografia di Einstein, riprendendo da dove ho lasciato. Einstein ci ha svelato nuovi accordi nella natura ma, insieme, ha reso instabile il terreno su cui camminavamo sicuri da secoli. Le nuove verità hanno eroso alla base i pilastri delle nostre certezze. E non solo di quelle scientifiche, mi dico. L’ombra del dubbio si è riverberata su ogni dimensione della nostra esistenza. (17)
E, discorrendo di Einstein, Alice-madre si rivolge ad Alice-figlia, come a porgerle un testimone, perché “ora è nelle sue mani il processo di disseppellimento di quell’ambiguo e ancora informe essere femminile che siamo tutte noi” (21), testimone però davanti a cui l’altra si ritrae, guardando la madre con scetticismo se non proprio con sufficienza:
Io credo che Einstein fosse molto femminile nel suo modo di ragionare… […] Quand’ero giovane come te, anch’io non cercavo strade nuove… Credevo che la scienza, il metodo scientifico fosse solo quello… quello che tu hai in mente, quello del tuo professore. Avevo paura, anzi avevo un timore reverenziale degli scienziati e dei loro libri. Non mi sarei mai permessa, non avrei mai osato pensare ad altri approcci possibili al sapere scientifico. Dobbiamo liberarcene, Alice, dobbiamo diventare più sicure di noi stesse. Dobbiamo crescere e così suggerire nuovi percorsi… (18-19)
La protagonista soffre per la freddezza della figlia, ma continua la sua connessione – il disseppellimento dei legami di sorellanza – e che bello che l’immagine attraverso cui ce la porta sia quella di una trasmissione tattile, le mani che toccando trasmettono, in un girotondo che è pratica giocosa al di là della seriosità mortifera di un sapere maschile così pieno di sé e così cieco da essersi fatto – preterintenzionalmente? – necrofilo. Le mani. La pregnanza delle mani, che avrei voluto mettere nel titolo del mio primo romanzo.
Guardo le mie mani. Queste mani sono del tutto mie? Ma no, sono le mani di mia madre e della madre di mia madre e della madre di mia madre di mia madre e potrei continuare così e riempire pagine e pagine.
Quando, alla fine della stagione estiva, metto nei vasi le melanzane sott’olio o la salsa di pomodoro, sto giocando al girotondo, mano nella mano, con tutte le altre donne, intorno al tripode in cui arde il fuoco della vita. Ma nel momento in cui ricevo una ragione assoluta del mio esistere, si dissolvono i contorni del mio viso che nessuno mai conoscerà. (23)
Le mani di mia madre, dice proprio. Perché la memoria femminile soprattutto diventa tatto, come dimostrano le mani della nonna della protagonista che sferruzzano senza guardare (36). E allora dico che è tempo di fermarci un attimo ad ascoltare la canzone di Mercedes Sosa, a dimostrazione di come questo circolo tattile sia potente movimento tellurico che ci unisce con donne geograficamente lontane, ma poderosamente presenti. Mercedes Sosa, con Joan Baez che la ascolta guardandola con occhi amorevoli. E il loro abbraccio alla fine.
Il pensiero maschile e il pensiero femminile nella scienza si giustappongono nella scena che Alice ricorda, dalla sua giovinezza, in cui la ricercatrice si trova coinvolta nella sfida per la risoluzione di un problema. La riporto perché la sua soluzione “visionaria”, con un unico integrale, viene bollata dal collega “sconfitto” – lui e le sue due lavagne infinite di calcoli – come “uterina”, un aggettivo che mi risuona con una familiarità perturbante perché lo sentivo spesso usare da mio padre, con l’accondiscendenza del “patriarcato buono” e oggi vedo con chiarezza come questo marchio, che non riuscivo – per amore – a leggere come stigmatizzante, mi abbia condizionata parecchio:
Nel corso della mia attività di ricerca mi capitò ancora di usare il mio metodo definito uterino. Soprattutto quando non sapevo trovare soluzioni con i metodi ammessi dalla scienza. No, non ne parlai mai con nessuno. (58)
E invece è proprio da questa capacità visionaria che Einstein stilla le sue geniali intuizioni: ancora giovanissimo, per dirne una, si era immaginato a cavalcioni delle onde elettromagnetiche e aveva avuto le sue prime prime intuizioni sulla relatività:
Forse, mi dissi, noi donne saremmo tutte dei geni se fossimo capaci di abbandonarci al fluire spontaneo dei nostri pensieri. Scavarci il nostro alveo, scegliere il nostro percorso, dalla sorgente sino al momento di confondere le nostre acque nel mare comune. (58)
A riprova del forte autobiografismo dell’opera, leggiamo le belle parole con cui Daniela Pastor ha ricordato Agnese:
poco tempo dopo la sua scomparsa, nella sala dell’Unione femminile ci radunammo per parlare di lei, anche con le amiche di Torino, e mi colpì l’osservazione di una di esse, pure lei laureata in fisica, che quella che aveva sempre ammirato in Agnese, da quando erano giovani, la facilità con cui affrontava i passaggi matematici difficili , “le veniva naturale la risoluzione di problemi”. Quello che affascina nel complesso della sua narrativa è questa naturalezza di passaggio dalla autocoscienza, alla scienza, alla fantascienza, e mi chiedo se l’occuparsi nella sua professione di conduttori, di fibre ottiche, di impostare progetti, non le abbia reso più agevole cogliere i nessi fra corpo e mente, l’io e il sogno, la visceralità e la galassia, la memoria e il futuro.