La natura ci riconosce ancora? Primi appunti a partire da Mary Oliver
Venerdì scorso Il Passo della Barca, la cooperativa di comunità che ho visto nascere nel mio quartiere e di cui sono anche socia, mi ha invitata a rispondere a questo interrogativo a partire dal mio romanzo, L’argine delle erbarie. Lì c’è una bambina che parla poco la lingua degli umani e tanto quella degli animali e delle piante (quelle erbe di cui sua madre, sua nonna e la sua bisnonna acquisita, la Strulghina, sono profonde conoscitrici. Perché Liuba è la nipote delle erbarie, le medichesse di campagna che tornano anche nel titolo). Liuba è molto legata a un’anatra di nome Seme, che la segue dappertutto e che la bimba cerca di imitare nei suoi brevi voli e nelle sue danze flessuose. Liuba è una creatura liminale: ha poca dimestichezza col linguaggio umano, ma è connessa col mondo della natura che con lei, intensamente e misteriosamente, comunica.
Liuba viene al mondo in un luogo di perturbante selvatichezza, la Busa di Bambèin:
Giunta alla Busa la vide come per la prima volta, rischiarata da quella luna abbondante, enorme seno che
consolava. Asciugava le lacrime che avevano riarso i loro volti, assorbiva i lamenti, trasformava i sibili in guaiti
di piacere. L’Armida sentiva un calore riempirla, come quando si era addormentata contro la Strulghina. E chiuse gli occhi. Si accovacciò a terra, il suolo un enorme scialle di lana ruvida e odorosa. Sentì come uno scrocco. Un suono che il suo corpo avvertì come una novità senza stupore. Pondo greve antico richiamo. Si addormentò nel dondolio dell’attesa. Non avrebbe saputo dire quanto tempo dopo, fu risvegliata da un morso lancinante che le schiacciava il respiro. Continuava a tenere gli occhi chiusi, come se le sue palpebre fossero uno schermo a riparare il tumulto interiore delle acque, la tempesta che le premeva contro le pareti della pancia, irrigidendole le gambe. Strisciò verso il fontanile e lì aprì gli occhi per afferrare il ramo basso; spuntava da un tronco che affondava le sue radici sulle rive dello stagno. Distese entrambe le mani come ad appendersi. Quando arrivava la contrazione si abbandonava a terra, facendosi conchiglia attorno al suo mollusco pulsante, poi si riappendeva al ramo, lasciando dondolare la parte inferiore del corpo, alla ricerca di un sollievo. Respirava profondamente e, per quanto poteva, continuava a tenere gli occhi chiusi. Ansimava e di tanto in tanto la notte era squarciata da un suo grido. Le upupe si erano ammutolite, ma la vegliavano con i loro occhi spilliformi, fissi come quelli dei matti. Le civette accigliate se ne stavano immobili sui rami, arcigne sentinelle.
Un urlo gutturale e prolungato le fece capire che era al culmine. Spalancò gli occhi. L’acquitrino con le sagome scheletriche degli alberi e i giunchi sottili era un antro infernale. Li richiuse. Le upupe incoronate e le occhialute civette la conducevano alla morte, ma non sentiva paura. Piuttosto sollievo. Avrebbe fatto spazio al vuoto, se non avesse avvertito un corpo viscido sguillarle fra le gambe, repentino. Si accovacciò in tempo per raccoglierlo. (pp. 77-78)
La scena in cui Armida sceglie di appartarsi in questa palude dalle acque stranamente trasparenti per dare alla luce la piccola Liuba l’ho ritrovata quasi identica in una poesia di Mary Oliver, ecopoeta statunitense che ho conosciuto solo pochi mesi fa, quando il romanzo era ormai pronto per andare in stampa. Questa prossimità mi ha perturbata e affascinata.
Nella bella introduzione della curatrice dell’edizione italiana di Primitivo americano, Paola Loreto, ci sono in epigrafe due versi di Mary Oliver:
Istruzioni per vivere la vita: presta / attenzione. Fatti stupire. Raccontalo.
Allo stupore – alla meraviglia – voglio dedicare del tempo dopo, guidata dalle belle pagine di Rachel Carson per il nipote. Ora invece voglio concentrarmi sull’attenzione, che è fondativa nella poetica (di vita) di questa poeta. E ribalto la domanda di partenza: se per caso la natura ancora ci riconoscesse, noi saremmo in grado di accorgercene?
Mi pare che uno dei tratti caratteristici del nostro tempo sia la mancanza di concentrazione, una caratteristica che si declina su più piani, dal minuto scambio quotidiano fino a questioni etiche profonde che stanno inquinando la nostra stessa umanità. Per Mary Oliver, l’attenzione invece è tutto: “la vera attenzione” perché “l’attenzione senza partecipazione […] è solo un resoconto”. E l’attenzione questa autrice dice di averla imparata da quello che fu il suo amore di una vita: la fotografa Molly Malone Cook, che Mary conobbe durante gli otto anni che trascorse, giovanissima, a riordinare l’archivio della poeta Edna St. Vincent Millay insieme alla di lei sorella. L’attenzione dettagliata che questa poeta fa “dei fenomeni più minuti del mondo naturale” (cito dall’introduzione della curatrice) è identica a quella con cui Liuba si immerge nella natura fluviale lungo l’argine del fiume Secchia, sotto cui le è capitato di nascere: è “un’immersione nella materia di cui è fatto il mondo” (p. IX) che a me fa pensare, oltre all’affect theory citata da Paola Loreto per cui la conoscenza si dà attraverso un’immersione nel mondo che è adesione affettiva, al panpsichismo contemporaneo spiegato da Freya Mathews, perché non siamo di fronte a una individualità romantica che si pone al centro del mondo naturale e lo soggettivizza col suo sentire ma, al contrario, l’essere umano qui si “decentra e ridimensiona” e quello che viene rappresentato è “un ecosistema in cui animali, piante, fiori, ruscelli e sassi sono interconnessi in una rete di relazioni che non conosce gerarchie di importanza e di potere”. Mary Oliver non si perde nemmeno nel mito della fusionalità con il naturale, ma sembra piuttosto, afferma Loreto, aspirare a un’ibridazione con gli earth others, gli “altri della terra” della studiosa del postumano Rosi Braidotti. Oliver nega così la posizione specista che, da Cartesio in poi basa la presunta superiorità umana proprio “sul logos, la prerogativa del linguaggio e della ragione logica” (p. X) – e qui mi riconnetto alle afasie di Liuba – per dare voce attraverso la sua poesia a pratiche biosemiotiche, secondo cui il mondo animale e il mondo vegetale ci parlano ed è soltanto attraverso una “conoscenza partecipativa”, un'”attenzione coinvolta”, un’adesione affettiva, che possiamo decodificare i loro linguaggi, è lasciando ardere il “fuoco bianco” (amore alla vita) e ascoltando il “tenero animale” che possiamo riconnetterci al tutto, perché dentro questo sistema famelico ed estrattivo in cui viviamo siamo condannati alla disconnessione. Dall’egocentrismo all’ecocentrismo. Questa la proposta intrinseca all’adesione poetica alla realtà che fa Mary Oliver. Un’adesione che non chiede sconti né scorciatoie facilitanti né stati d’eccezione.
Questa raccolta è allora un invito ad abbandonarci all’eccedenza, ai “cinque fiumi” dei nostri sensi, alle metamorfosi, all'”inondazione sensuale”, alla gioia del gusto, decostruendo così la dicotomia patriarcale tra cultura e natura per reintegrarci in una paritaria appartenenza a quel mondo naturale da cui gli esseri umani si sono allontanati per dominarlo e sfruttarlo.
Solo una volta, e in sogno, / ho osservato una mucca mentre, segretamente / e con la amorevolezza di ogni donna amorevole, / dava alla luce / un vitello rosso, lo asciugava con la lingua e lo allattava / in un angolo caldo / della notte tersa / nell’erba fragrante / nei domini selvaggi / della primavera della prateria, e ho chiesto loro, / in sogno mi sono inginocchiata e gli ho chiesto / di farmi un po’ di spazio. (Traduzione di Paolo Loreto)
Qui l’originale di Mary Oliver:
Once only, and then in a dream, / I watched while, secretely / and with the tenderness of any caring woman, / a cow gave birth / to a red calf, tongued him dry and nursed him / in a warm corner / of the clear night / in the fragrant grass / in the wild domains / of the prairie spring, and I asked them, / in my dream I knelt down and asked them / to make room for me.