Di streghe e stregoneria nel Modenese
Del lavoro di Morena Poltronieri ed Ernesto Fazioli, incontrati la prima volta al Museo Internazionale dei Tarocchi che hanno creato sull’Appennino Bolognese, mi colpisce l’abbondanza di pubblicazioni e la dovizia di particolari presente in ognuna. Lei l’ho poi anche sentita diverse volte presentare opere di altre donne e l’ho sempre trovata accogliente e accuratissima. Di questo loro testo, Streghe!, pubblicato dieci anni fa dalle edizioni Hermatena, mi soffermerò solo su alcune parti che ho trovato particolarmente interessanti durante la stesura del mio romanzo L’argine delle erbarie.
Le origini della figura della strega sono riconducibili al mondo rurale, dove l’opera di catechizzazione del cristianesimo fu più tardiva e meno capillare: tanti nomi di divinità, diversi nei tempi e negli spazi, tutti riconducibili alla Grande Madre primigenia, datrice di quella vita “che appena viene alla luce contiene già un anelito di morte” (e Freya Mathews analizzando il mito di Eros e Psiche ci ha mostrato bene come la presa di coscienza di questa struttura chiastica sia un passo decisivo nella maturazione dell’io erotico, disponibile a una intersoggettività con tutte le creature del cosmo e insieme solidamente radicato).
Nel Modenese di streghe scrisse Gianfrancesco Pico della Mirandola, figlio di un fratello del celebre umanista Giovanni, per ratificare le numerose condanne al rogo eseguite tra 1522 e 1523 nel suo feudo. Dopo avere partecipato agli interrogatori delle donne accusate e aver esaminato gli atti processuali, si era convinto del loro effettivo potere e scrisse un dialogo in latino che subito venne tradotto in volgare diventando il primo testo italiano di teoria della stregoneria. Qui gli incantesimi delle sue contemporanee vengono collegati ai lontani giochi di Diana ed Erodiade. La prima edizione latina della cosiddetta Strix fu pubblicata nel maggio 1523 per iniziativa del domenicano bolognese Leandro Alberti, il quale ne curò anche la traduzione in volgare che iniziò a circolare ben presto fra la gente. Il suo “contenuto antistregonesco” lo rese molto popolare e venne tradotto anche in tedesco nel 1612 e nel 1621.
Poco prima di Gianfrancesco Pico e in latino, aveva scritto di streghe a Modena Bartolomeo Spina, vicario dell’Inquisizione tra 1518 e 1520 e professore di teologia e rettore dello Studio dell’Ordine di Bologna nel 1530. Nel suo Quaestio de Strigibus, anche lui afferma la realtà della stregoneria, con descrizioni che saranno fonti molto utili per lo studio delle tradizioni popolari in Emilia-Romagna, e sottolinea l’urgenza di reprimere questa secta maleficarum con i soliti violentissimi mezzi, attinti in gran parte dal Malleus di Kramer e Sprenger, uscito pochi decenni prima (1487).
Nella Quaestio de Strigibus emergono le figure di alcune donne modenesi accusate di stregoneria, le piante più usate, le consuetudini dei ritrovi dello striazo (sorta di sabba), il ricorrere della notte di San Giovanni – solstizio d’estate – come momento magico particolarmente significativo, gli ingredienti per fabbricare i ‘brevi’, sacchettini di erbe appesi al collo utilizzati per curare i bimbi dal “mal caduco” (forme epilettiche).
Anche Ludovico Antonio Muratori scrisse di stregoneria. Nella cinquantanovesima dissertazione delle Antiquitates Italicae Medii Aevi (1741), individuava il seme delle superstizioni nei secoli bui dell’ignoranza e della credulità popolare, anticipando il dibattito sul fenomeno stregonesco che, intorno al 1750, coinvolse molti uomini di cultura italiani: la magia e la superstizione, connesse col demoniaco, vengono da lui collegate a una immaginazione debole e delirante, che nelle donne deboli e ignoranti produceva “sporchissimi sogni”. Muratori collegava dunque queste credenze all’ignoranza della gente rozza e le trattava con ironia.