“Medichesse. La vocazione femminile alla cura”, di Erika Maderna (Aboca 2022)
Consapevole che l’antenata della moderna strega è sacerdotessa e profetessa ma di questo si è persa coscienza, l’autrice traccia in questo saggio una ricca genealogia di guaritrici, dai tempi remotissimi, dove storie e miti inestricabilmente si intrecciano, al XVII secolo, quando, con l’Enclosure Act, la pratica guaritiva popolare subisce una durissima battuta d’arresto e con lei quell’economia in cui le donne esercitavano i mestieri di cura, strologando soluzioni di sopravvivenza coi beni che i dintorni di casa offrivano.
Le origini illustri di questi mestieri, le conserva talora l’etimologia e allora saga è la maga esperta di magia empirica, dove la radice è quella di sagacitas, qualità di chi possiede sensi acuti, mentre witch ha la stessa radice di wise e del tedesco wissen: è la sapienza. Nelle cosmogonie e nelle mitologie del mondo mediterraneo antico le conoscenze mediche erano attribuite in prevalenza “a divinità femminili, ritenute le naturali depositarie delle segrete leggi che regolano la ciclicità della natura, i ritmi agrari, le energie trasformative e generative” (23). Non stupisce se si pensa che avere nozioni basilari di chirurgia e di primo soccorso non era per le donne una velleità, bensì una necessità basilare.
Le prime conoscitrici dell’arte della medicina furono così dee, taumaturghe, maghe e profetesse, “figure arcaiche, troppo conturbanti per non essere sottoposte a un ridimensionamento culturale o addirittura a un giudizio morale; troppo temibili per non finire relegate nell’universo di ciò che è sacrilego ed empio” (18).
Guaritrice all’alba dei tempi è Potnia, la grande madre primordiale, conoscitrice della vita e dei suoi misteri più intimi. È la Signora dei Serpenti di Creta. Testimoni di una genealogia solare sono invece Circe e Medea, entrambe esperte conoscitrici di erbe. La prima nelle traduzioni italiane dell’Odissea è stata “declassata” a maga, ma Omero la chiama sempre “dea”, pur definendo i suoi rimedi “funesti” e “micidiali” (il più celebre certamente la metamorfosi da lei indotta dei compagni di Ulisse in maiali che, non dimentichiamolo, erano comunque in origine animali sacri alla dea).
Come abbiamo imparato dagli studi pionieri di Marija Gimbutas, durante l’età del Bronzo (tra 3400 a.C. e 1100 a.C.), l’Europa orientale viene sconvolta dalle invasioni di popoli patriarcali eurasiatici (indoeuropei): civiltà guerriere, impostate su principi di conquista e sottomissione, che però non riuscirono a sradicare del tutto le civiltà della dea, la quale venne smembrata in differenti personificazioni: le varie Era, Artemide, Demetra, Afrodite, Persefone, o le dee italiche Angizia, Bona Dea, Feronia, Flora, per prendere come esempio soltanto il contesto greco e quello preromano della penisola italiana. Bona Dea/Angizia veniva venerata dai Marsi e dalle popolazioni osco-umbre come dea conoscitrice degli usi terapeutici delle erbe e si reputava che tramandasse per via sacerdotale gli antidoti contro il veleno dei serpenti. Artemide era la dea vergine (nel senso di integra, selvaggia, radicale) che proteggeva le partorienti.
Igiea e Panacea, figlie di Asclepio, tutelavano, la prima le pratiche dell’igiene e della medicina preventiva, la seconda l’opzione di una guarigione universale ottenuta con l’ausilio delle piante, a conferma di come il panpsichismo, rideclinato in versione contemporanea dall’ecofilosofa Freya Mathews, sia antico e insieme necessario per rivolgersi nuovamente al mondo in un gesto di cura. Ecate è dea liminale, profetica maestra dei misteri che consentono la rigenerazione. Spaventa proprio questa liminarità, negazione dell’antinomia binaria: un fare dell’interstizio la propria dimora, uno stare fra l’erba che salva e l’erba che accoppa senza schierarsi apertamente. Ma lo schierarsi, appunto, è metafora bellica, propria di una visione dicotomica che vorremmo contribuire a sradicare anche sul piano simbolico.
Medea è stata ancora più maltrattata dalla cultura occidentale, stigmatizzata come una creatura degenere perché figura indelebilmente connessa all’infanticidio (Pasolini invece ne coglie la profonda potenza tragica, il suo appartenere a un altro tempo, a un’altra sensibilità, che la rendono inspiegabile e potente al tempo stesso). Il suo cuore indurito per il tradimento di Giasone è quello di un’altra divinità greca, la Lamia vampira e rapitrice di bimbi, a cui nella superstizione popolare si imputava la responsabilità delle morti in culla, il suo animale totem è il serpente, animale di natura doppia, velenoso e autorigenerantesi, un simbolo inizialmente benefico, per il suo contatto con la terra (dimensione ctonia) che poi viene risignificato e diventa attributo diabolico. Originariamente il serpente era inoltre collegato alla sfera lunare, al ciclo femminile quindi, alla rigenerazione (cambio pelle) e per questo collegato alla guarigione, infatti anche il caduceo di Asclepio, simbolo della medicina, veniva rappresentato tradizionalmente avvolto da uno o da due serpenti. Per una mente aperta come Socrate – così lo rappresenta Platone nella Repubblica – uomini e donne hanno sostanzialmente pari diritto di praticare la medicina, ma delle mediche nelle antiche culture non ci è quasi arrivata notizia perché ne è stata dannata la memoria. Nell’Iliade una citazione fugace salva la memoria di Agamede, figlia di Augia, che porta assistenza ai feriti sul campo e conosce “tutti i rimedi che la vasta terra nutre” (XI, 740-741). Nel IV libro dell’Odissea, Elena è ritratta nell’atto di somministrare un farmaco capace di placare il dolore e di sopire, se mescolato al vino, i più gravi pesi dell’anima. Poi abbiamo notizie di Metrodora, levatrice bizantina vissuta nel V secolo a.C., il cui nome – probabilmente uno pseudonimo – significa “doni dell’utero”. Nel suo Sulle malattie delle donne, che è il più antico volume di contenuto medico scritto da una donna che ci sia giunto, dedica spazio a parlare del latte materno, del seno, della matrice (utero), dello stomaco, degli squilibri umorali, ma anche dei rimedi cosmetici legati al seno, agli inestetismi provocati da gravidanza e allattamento, alle ricette di bellezza.
La demonizzazione delle donne sapienti continua anche nel mondo romano, con Orazio, Lucano e Apuleio (anche se quest’ultimo meriterebbe forse qualche puntualizzazione, come lascia intuire l’analisi che fa Freya Mathews del mito di Amore e Psiche, così come viene raccontato nelle sue Metamorfosi).
Igidio l’Astronomo, scrittore romano del I secolo d.C., riporta lo straordinario aneddoto di quella che viene detta la prima medichessa greca, Agnodice, una ragazza spinta da un appassionato desiderio di conoscenza a sfidare le leggi ateniesi del IV secolo a.C. che proibivano l’accesso delle donne alla professione. Agnodice voleva essere di supporto alle sue concittadine che per pudore si sottraevano agli sguardi dei medici maschi trascurando anche gravi affezioni ginecologiche che spesso le portavano alla morte. A questo scopo si tagliò i capelli e si travestì da maschio. Poté così assistere alle lezioni di Erofilo per ottenere la licenza di medico. Credendola un uomo, le sue pazienti le facevano resistenza, ma lei con delicatezza si palesava loro, una per una. Il suo successo scatenò l’invidia dei colleghi che accusarono il presunto giovane medico di sedurre le mogli, le quali adducevano mali immaginari per poterlo avere al loro capezzale. Davanti ai giudici che la accusavano, Agnodice rivelò il proprio sesso e venne accusata di aver violato le leggi della città. Davanti alla prospettiva della pena capitale per lei, le ateniesi insorsero costringendo i giudici a cambiare il verdetto e a riconoscere il lavoro della coraggiosa medica.
Tutte queste mediche dell’antichità avevano anche la passione per la sperimentazione cosmetica: così Livia e Ottavia, moglie e sorella di Ottaviano Augusto, così Antonia, figlia di Marco Antonio, e Messalina, moglie di Claudio. Poi Cleopatra. O Aspasia del II secolo d.C.
A loro si rifanno le cosmetae e le alchimiste delle corti rinascimentali.
Il Cristianesimo, che ai suoi albori si era posto come un credo rivoluzionario capace, con la sua novità sovversiva, di attirare le donne, mise troppo presto le competenze erboristiche femminili a dura prova [1]: già nel II sec. d.C. Tertulliano definiva Eva “diaboli ianua”, la porta del diavolo, che nel Malleus maleficarum, opera dei frati domenicani Sprenger e Kramer pubblicata nel 1486, diventa addirittura instrumentum diaboli. Il sapere femminile andava così facendosi il teatro di uno scontro tra razionale e irrazionale, ma le donne continuarono a praticare le loro arti, sia nelle prassi quotidiane sia in quelle professionali.
Già Agostino, nel IV secolo, riteneva che manipolare erbe per farne decotti e unguenti fosse opera del diavolo, a meno che non fosse praticato dai santi. Nel Medio Evo il facere cum herbis già avversato dai Romani venne proibito dalla Chiesa attraverso la condanna dell’incantare herbas sancita dal Concilio Bracarense II nel 572. Si legittimarono allora i laboratori farmaceutici nei monasteri e grazie a questo abito religioso alcune grandi donne della cristianità (come Radegonda di Poitiers, l’infelice moglie del re merovingio Clotario, nel VI secolo d.C), poterono continuare a esercitare la medicina senza incorrere nel sospetto di stregoneria. Prosegue in loro tuttavia la condanna alla rinuncia ai piaceri del secolo, in cambio del privilegio della conoscenza delle erbe. Come le Pizie, le sacerdotesse vestali di Delfi, che avevano il raro privilegio di essere emancipate dalla patria potestà ma lo pagavano con l’obbligo di rinunciare alla propria sessualità. che sceglie il monastero per emanciparsi.
Nel Basso Medioevo, i nomi più noti sono quelli di Ildegarda di Bingen e Trotula, che legarono la salute al concetto di armonia col creato. Ma in quest’epoca la condizione delle donne nelle professioni di cura si complicò. In poche realtà europee si ufficializzò il ruolo di alcune curatrici, per lo più di famiglia borghese (come probabilmente la Virdimura nella Catania del XIV secolo raccontata da Simona Lo Iacono nell’ultimo romanzo), tuttavia, come prima dell’anno 1000, fu per lo più lo “spazio straordinario” del monastero a dare a donne, comunque appartenenti a famiglie facoltose, l’opportunità di esprimere i loro talenti. L’esempio più noto è certo quello di lldegarda di Bingen (1098-1179). Idealmente legata, per la sua concezione olistica della salute, alla filosofa Teano (VI secolo a.C.), Ildegarda fu persona di grande versatilità e di tempra eccezionale. Entrò in convento come novizia fin da bambina, quando proprio perché era di salute molto cagionevole cominciò a interessarsi al concetto e alle pratiche collegate alla salute. Studiò i testi sacri, i classici greco-latini, i filosofi neoplatonici, le enciclopedie medievali. Ebbe una vita lunga, scandita dai ritmi e dalle regole della quotidianità claustrale, mantenne una vivace relazione intellettuale coi tre segretari Volmar, Goffredo e Gilberto, un rapporto materno con la giovane monaca Riccarda e fu amica di Bernardo Chiaravalle e di Federico Barbarossa. La sua opera è abbondante e composita: lettere, testi teologici, filosofici, naturalistico-medici nonché numerose composizioni musicali. Cominciò a scrivere intorno ai 40 anni per dare voce alle visioni che aveva avuto fin da bambina e che conferiscono alla sua rappresentazione della realtà una originalità potente intrisa di un eccezionale amore per la vita (il fuoco sacro di quella che lei chiamava viriditas): le conoscenze sembrano pervaderla suo malgrado ed erompono da un mondo interiore incredibilmente ricco e composito. Ildegarda fu una ricercatrice appartata che studiò la natura dal suo ritiro mistico. Una pizia cristiana, una profeta. Sapeva che il corpo è collegato alla mente e allo spirito: anche la sua riflessione sulla sessualità femminile porta traccia di questa consapevolezza ed è molto delicata, ben al di là della mera funzione riproduttiva, con una forte attenzione alla psiche. Istintiva portatrice di un pensiero frattale, vedeva riflesso in ogni creatura l’intero creato. Le erbe venivano per lei insieme alla musica e al canto, come per le antiche guaritrici e le future streghe, ma le mura del monastero la protessero dalla condanna di eresia.
Chi però restava fuori da questa cerchia di mediche borghesi o monache erboriste veniva sempre più relegata ancora di più nell’ombra. Scriveva Joyce Lussu, nell’Erba delle donne:
[Con l’avvento del patriarcato] le donne, che avevano maturato la meravigliosa intelligenza delle mani, del rapporto reale con la vita e col corpo, con la terra, con l’acqua, col fuoco, con le piante che crescono, con gli animali che nascono, con la materia che si trasforma in utilità e in bellezza, con i sentimenti di affetto e di solidarietà, furono respinte nell’ombra profonda del non-potere, del non-decidere, della nonidentità. E quelle che non accettarono la sconfitta, e che non si rinnegarono vendendosi ai guerrieri o cadendo nell’apatia e nella rinuncia, sparirono nel grembo oscuro del mondo contadino… Durante la millenaria schiavitù del mondo contadino, sono le donne che nonostante la sconfitta non hanno capitolato, ad assicurare con la loro scienza la sopravvivenza dei lavoratori, di fronte al disprezzo della classe dominante, solo avida dei frutti delle loro fatiche e indifferente ai loro dolori e alle loro necessità. […] Sono le discendenti delle donne adulte e intelligenti che avevano maturato la prima rivoluzione tecnica del neolitico, imparando ad accumulare scorte per la sopravvivenza di tutta la comunità, mentre i maschi inventavano la guerra. […] Sono tutte le streghe contro le quali si scatena il potere maschilista, mercantile, militare che per domare le rivolte dei contadini sente la necessità di distruggere la loro cultura incentrata sulle antiche tradizioni della donna-saggezza. La sconfitta delle jacqueries in Francia, dell’insurrezione di John Ball in Inghilterra, degli esorcisti contadini in Germania, delle comunanze rurali in Italia ha come corollario le torture e i roghi di centinaia di donne. (Lussu, 1978, pp. 14-16)
Dopo Metrodora per leggere un altro trattato medico scritto da una donna dobbiamo aspettare addirittura il XII secolo con Trotula de Ruggiero, la più celebre delle mulieres salernitanae. Nella sua opera si parla di disfunzioni e anomalie nelle mestruazioni, di patologie uterine, di difficoltà nel concepimento, di sterilità femminile e maschile, di gravidanza, parto, indicazioni puericultura. Sono utilizzati rimedi simbolici (< simballo= metto insieme), il potere della parola, del contatto, le invocazioni a Cristo. Magia, sapere erboristico e medicina sono intrecciate, com’era tipico della cultura medica medievale.
L’epoca moderna è tristemente nota per la violenza assurda ed efferata della caccia alle streghe e si inaugura con l’opera-simbolo di questa persecuzione: nel 1486 uscì infatti il Malleus maleficarum, secondo cui ogni medichessa era potenzialmente colpevole di delitti efferati e “contronatura”. In particolare, vittime di sospetto e pregiudizio furono le levatrici, accusate di fare i “danni peggiori” e di superare “in malizia tutte le altre”. L’erbaiola Gabrina degli Albeti citata nell’Orlando Furioso, per esempio, era proprio una levatrice e venne accusata di parlare troppo – a riprova che questi saperi si articolavano fra herba et verba, fra osservazione, veggenza e incantamento. Come punizione per le sue pratiche di magia contadina le tagliarono la lingua.
Nel Rinascimento si svilupparono inoltre le scuole alchemiche. L’alchimia è una dottrina dai caratteri iniziatici ed elitari basati sulla trasformazione della materia in un’ottica di ascesi; l’alchimista vuole creare la pietra filosofale, attraverso un rituale simbolico in cui venivano lavorati zolfo, mercurio e sale. Il più famoso alchimista del Cinquecento fu il medico, mago e astrologo tedesco Paracelso – un soprannome che significa “al di là di Celso” (medico del I secolo d. C.) ed esprime appunto la sua volontà di andare al di là della medicina ippocratica e galenica. Sua madre era direttrice di un ospedale per pellegrini annesso a un monastero. Qui Paracelso poté cimentarsi per estrarre la quintessenza o energia sottile, combinabile con altri elementi, di origine sia vegetale che minerale. Lo fece riscoprendo l’antica spagiria (da spáo= separo e agheìro= raccolgo), l’arte di estrarre le parti nobili delle piante attraverso la distillazione (tecnica utilizzata per separare due o più sostanze presenti in una miscela, che sfrutta la differenza dei punti di ebollizione di tali sostanze) e la sublimazione (trasformazione in gas).
Medichesse di Erika Maderna arresta il suo excursus alle soglie del Seicento quando, con la nascita dell’economia capitalista, l’alterità venne brutalmente emarginata attraverso i dispositivi di regolazione e di esclusione che le biopolitiche, mirate al controllo e all’omologazione dei corpi, hanno via via perfezionato fino ai nostri tempi di sfrenato neoliberismo.
[1] È questa detronizzazione dei saperi legati ai culti della Dea Madre, per Marija Gimbutas, “la maggior vergogna della Chiesa cristiana”.